Una storia su cinque piani
Cinque piani vissuti appassionatamente con la famiglia, arredi anni Cinquanta, materiali caldi e nessuno sfarzo. Per la sua TOWNHOUSE NEWYORKESE l’attrice ha scelto la «normalità», fatta di oggetti di carattere, pezzi che raccontano una storia. E ha rivoluzionato gli spazi: chi l’ha detto che la cucina debba stare al piano inferiore?
Modificando la disposizione delle stanze, Julianne Moore ha infuso nuova vita alla sua amata townhouse a New York. In genere, l’aggettivo «normale» non si addice al living di un certo livello, perché assume una connotazione leggermente peggiorativa, di qualcosa di banale, antitesi della magia e della meraviglia che l’interior design vuole ispirare. Eppure, entrando nella casa di Manhattan dell’attrice, la prima impressione è proprio quella di una sorprendente normalità. C’è il rumore di sottofondo dei figli, dei cani che abbaiano affettuosamente per richiamare l’attenzione. Non ci sono la piscina coperta a sfioro, l’hammam alla turca, lo skyspace di James Turrell né qualsivoglia segnale evidente di sfarzo. La sensazione è quella di una bellissima casa senza eccessi. «Per anni ho sognato di vivere in una townhouse del West Village», racconta l’attrice premio Oscar per Still Alice (2015), e recente protagonista di film di alto profilo come Wonderstruck di Todd Haynes, Suburbicon di George Clooney e Kingsman - Il cerchio d’oro di Matthew Vaughn. «La prima volta che sono entrata qui ho capito che era quella giusta, è stato amore a prima vista», ricorda. Accadeva 15 anni fa. All’epoca, l’abitazione su cinque piani era stata suddivisa in appartamenti, ma «l’edificio aveva conservato sufficiente carattere perché potesse essere riportato alle sue origini di architettura neogreca senza distruggerne l’anima», spiega Moore. Prima di iniziare il restauro, nel 2003 l’attrice ha sposato il suo compagno di lunga data, lo sceneggiatore e regista Bart Freundlich, nel giardino sul retro della casa. I loro figli Caleb, 20 anni, e Liv, 16, erano presenti alla cerimonia per mettere il «sigillo di famiglia» sull’edificio ancor prima che ci andassero a vivere. In realtà, il restauro
«Entrando in questa casa, è stato amore a prima vista»
stesso è stato un po’ un affare di famiglia, diretto dal fratello architetto di Bart, Oliver Freundlich, e da quelli che erano all’epoca i suoi soci Ben Bischoff e Brian Papa, in collaborazione con Moore, grande appassionata di design. Terminati i lavori, durati circa un anno e mezzo, l’attrice ha arredato la casa con pezzi che evidenziano una predilezione per le forme organiche, i materiali caldi e le linee ordinate degli anni Cinquanta: un tavolo da cocktail di George Nakashima, lampade di Isamu Noguchi, una credenza di Florence Knoll e una serie di oggetti d’epoca di gran carattere. «Mi piacciono le cose che hanno una vera personalità: odio le imitazioni», spiega la padrona di casa. Col passare del tempo, Moore ha ampliato le sue collezioni e affidato un ampio intervento di riprogettazione del giardino a Brian Sawyer dello studio Sawyer Berson. Ma c’era ancora qualcosa da realizzare nella sua casa dei sogni: «In origine avevamo previsto la cucina al piano inferiore, dove si trova solitamente, ma era lì che finivamo sempre tutti, ammassati su un divanetto, a guardare la televisione. Non ci ritrovavamo mai nel soggiorno al piano superiore», ricorda. E poi c’è stata la folgorazione: perché non spostare il soggiorno di sotto, in modo che potesse diventare un luogo di ritrovo informale per la famiglia, portando la cucina di sopra? «È cambiato tutto. Adesso usiamo l’intera casa». Nell’ambito dell’ultima riorganizzazione degli spazi, Moore ha deciso di spostare lo studio dal salotto, situato al piano terra, dove il rumore della strada la distraeva, in una stanza più silenziosa al piano superiore. Lì ama lavorare seduta a una scrivania di Pierre Jeanneret, sotto la luce di una lampada a sospensione di Paavo Tynell. Le librerie accanto alla scrivania racchiudono, ordinate, la storia dell’attrice: tra le fotografie di famiglia ci sono il suo premio Oscar e altri riconoscimenti professionali, accanto a pile di vecchie riviste di arredamento e monografie sul lavoro dei suoi designer preferiti. «Mi stupisco spesso nel constatare quante townhouse abbiano perso la loro anima dopo la ristrutturazione. Ti ritrovi con tutte le scomodità dello “sviluppo verticale” e neanche un briciolo di fascino», conclude Moore. «Mi piacciono le cose che danno una sensazione di umanità, pezzi che raccontano una storia. Per entrare in casa mia, un oggetto deve avere un vero significato».
«Per arredare gli spazi, ho scelto cose che hanno una vera personalità: odio le imitazioni»