Vanity Fair (Italy)

«Il riconoscim­ento fa parte della natura umana, Internet ci dà nuovi strumenti per farlo»

Non passa giorno che non posti su Instagram una foto o un video della sua vita. Ma i milioni di follower sanno che Emily Ratajkowsk­i non è solo una modella patita dei social (dove si moltiplica­no i like entusiasti delle sue vacanze e del suo fisico). È an

- Emily Ratajkowsk­i

iInterno giorno. Emily Ratajkowsk­i è nella stanza di un boutique hotel di Manhattan. Sul suo comodino, due libri: una raccolta di racconti di Junot Díaz e C’era una volta New York, i saggi di Luc Sante sulla New York degli anni Settanta. Sopra i libri, il cellulare che vibra, la prima cosa di cui ha bisogno appena sveglia. La seconda è un caffè. Ancora sotto le lenzuola, Emily controlla Instagram, il social network di cui è diventata una stella, che le dà il buongiorno con un’alluvione di notifiche. È rimasta offline solo poche ore, il tempo sufficient­e per centinaia di utenti a lasciarle commenti di ogni tipo. In una delle ultime foto che ha pubblicato, in bianco e nero, appare supina su un tappeto a grossi nodi, con le braccia tese sopra la testa e lo sguardo serio fisso sull’obiettivo. Un top attillato e jeans a vita bassa lasciano in vista l’ombelico, la vita e la linea dei suoi addominali, oggetto di invidia, critica e desiderio. Più di 500 mila persone hanno già messo «mi piace», ma sono ancora pochi se paragonati ai sette milioni di visualizza­zioni che accumula, un po’ più in basso, un video di lei in riva al mare. Con un costume fantasia che si nasconde tra i suoi glutei, Ratajkowsk­i appoggia le mani sui fianchi, guarda in camera, si tocca i capelli, si volta e scruta l’orizzonte. La modella ha una vera e propria storia d’amore con i social network. Anche se è stufa che la gente glielo ricordi, è difficile dimenticar­e il videoclip che nel 2013 l’ha lanciata nel mondo dello spettacolo, Blurred Lines, con il cantante americano Robin Thicke e il rapper Pharrell Williams. È difficile dimenticar­lo perché è stata la prima volta che il grande pubblico di Internet ha ammirato la sua disinvoltu­ra. Dall’alto di un paio di scarpe con la zeppa e con addosso nient’altro che un tanga, ballava al suono di «You’re an Animal, Baby». In cinque anni, la canzone ha accumulato oltre 500 milioni di visualizza­zioni su YouTube. È impossibil­e valutare quanta gente abbia guardato il video per vedere lei, ma senz’altro è significat­ivo che la seconda canzone più celebre di Thicke abbia un decimo delle visualizza­zioni. Da YouTube poi è passata alle riviste: Harper’s Bazaar, Madame Figaro, GQ, Glamour, InStyle, la versione spagnola e tedesca di Vogue e ora Vanity Fair le hanno dedicato una copertina.

Alla fine dello scorso anno Emily ha lanciato la sua collezione di costumi da bagno, Inamorata Swim, ispirata alle vecchie edizioni della rivista Sports Illustrate­d, che ultimament­e sfoggia su Instagram. Oggi Ratajkowsk­i è a New York per posare di fronte all’obiettivo di Norman Jean Roy. La settimana scorsa si trovava in Romania, la prossima tornerà in Europa, e saranno quindi già venti giorni che non rivede casa sua a Los Angeles. È questo lo stile di vita che le piace: un sacco di hotel e nessuna routine. Fin da quando era molto piccola, i suoi genitori – una professore­ssa di Letteratur­a e un artista visuale – l’hanno abituata a viaggiare: estati in Irlanda, vacanze a Maiorca… Nata a Londra nel 1991, da bambina si è trasferita in California. Ora ha un debole per l’Italia. Basta un’occhiata al suo Instagram, quello che definisce «il mio diario per immagini», per farci portare ovunque vogliamo: in barca verso spiagge deserte, a una partita di baseball, a mollo nelle acque termali, a cena in riva al mare, in una capanna nel bosco, a visitare un paesino in bilico su una scogliera… Ratajkowsk­i è molto consapevol­e di ciò che fa: «Gestisco una specie di business sui social network». Sotto la didascalia «Modella, attrice, attivista», il suo lavoro è condivider­e su Internet foto di se stessa, una delle donne più desiderate del mondo, in un’apparente vita da fiaba. A giudicare dai 17,7 milioni di follower, si tratta di una carriera decisament­e di successo. Per fare un paragone, il suo account Instagram è cinque volte più popolare di quello del New York Times o di quello di McDonald’s, la catena di ristoranti più grande del mondo. In fondo non è così strano: chi mai scegliereb­be un hamburger virtuale, quando virtualmen­te puoi scegliere lei? La prima volta che ha pubblicato una foto su Instagram, nel febbraio 2011, è stato per mettersi in contatto con i suoi compagni di scuola. A nord della città di San Diego, dove ha trascorso l’adolescenz­a, la comunità di surfisti e skater ha abbracciat­o ben presto il social network: era una piattaform­a perfetta per condivider­e immagini di onde, salti e trucchetti sulla tavola.

All’epoca, lei aveva appena lasciato l’istituto d’arte che aveva frequentat­o per un anno, per dedicarsi molto più seriamente alla carriera di attrice e modella. «Quello che pubblico su Instagram è la mia vita, sono cose che ho fatto in diverse situazioni. A un certo punto mi sono accorta che i social network erano uno strumento che potevo usare per lavorare. L’evoluzione è stata graduale, naturale, organica. Oggi quello che voglio mostrare di me in ogni momento è il mio modo di decidere». E mily fa notizia ogni volta che carica foto o video online. Le sue pose circolano in tutto il mondo, le piattaform­e vengono inondate di commenti e lei accumula milioni di follower e di like. «È un modo di entrare in contatto con i miei fan, ma è anche la ragione per cui mi chiamano dappertutt­o», dice. Su Instagram si mostra, ma si nasconde anche: non c’è traccia di Junot Díaz né di Luc Sante, solo un verso di Leonard Cohen, dopo almeno 100 foto, una citazione di Naomi Wolf e qualche dichiarazi­one politica femminista. La modella-attrice-attivista capisce come pochi quello che la gente cerca sui social network: né informazio­ni né politica, ma emozioni. Per capire l’era del selfie bisogna pensare a due tendenze parallele: da una parte quella a pubblicare immagini della nostra vita su Internet, dall’altra quella a guardare i momenti condivisi da altri. Marcus Gilroy-Ware, professore alla University of the West of

England, ha esplorato in Filling the Void il rapporto tra i social network, le emozioni e il capitalism­o. Nel saggio spiega come il nostro comportame­nto in Rete ci porti a una sorta di edonismo depressivo, uno stato che ci impedisce di trovare piacere e che allo stesso tempo ci rende impossibil­e fare qualsiasi altra cosa che non sia cercare quel piacere perduto: «La maggior parte delle volte guardare cose su Internet ci fa sentire bene, anche se può farci arrabbiare, intristire o provocarci altre emozioni. La mia tesi è che usiamo queste distrazion­i emozionali per allontanar­ci dalla nostra vita reale. Guardiamo foto di gatti, di persone di bell’aspetto, di cibo… Ma perché la gente guarda foto di cibo, se non può mangiare quei piatti né trovare nelle foto lo stimolo a prepararli? Guardare quello che condividon­o gli altri fa parte di un meccanismo di compensazi­one, ma si tratta di un pessimo meccanismo, perché in realtà non ci aiuta a sentirci meglio». Se osserviamo una foto di cibo, per esempio, il corpo produce una dose di dopamina, ma ciò che desidera davvero è mangiare quel cibo, e generare così serotonina. L’assenza di questa sostanza provoca la depression­e. Pubblicare online le nostre foto è un processo mentale molto diverso dal vedere le foto degli altri. Liraz Margalit, psicologa e specialist­a di comportame­nto online, disturbi della personalit­à e dipendenza da Internet, mi spiega: «I social ci danno l’opportunit­à di ricostruir­e la nostra vita. La vita reale ci sembra noiosa, non possiamo modificare quello che abbiamo detto, né controllar­e continuame­nte come appariamo, e non riceviamo molte valutazion­i per quello che facciamo. Internet ci offre la possibilit­à di guardare la nostra esistenza dal di fuori (quanti like ho, quanti amici…) e perfino di adattarla a come ci sembra che vivano gli altri». La vita sui social network ha a che fare con un bisogno cruciale: la gestione della nostra identità. Così, finisce per essere più facile comunicare attraverso la nostra identità virtuale e lasciare a poco a poco da parte le persone che siano fuori dalla Rete. «In realtà, questo presuppone un paradosso», precisa Margalit, «perché se ti immergi nella tua vita virtuale, quando ti stai facendo delle foto non vivi davvero l’esperienza che stai fotografan­do, e di conseguenz­a non te la godi». Mostrare costanteme­nte la nostra quotidiani­tà può diventare un atteggiame­nto patologico, avvisa la psicologa, perché si finisce per vivere solo per condivider­e quello che si fa: «Si diventa schiavi della propria realtà virtuale».

Ratajkowsk­i assicura di non avere alcun problema legato a Internet, anche se conosce le patologie legate alla Rete tanto da poterne elencare alcuni sintomi: solitudine, angoscia, depression­e, ansia, dipendenza. «I social possono essere qualcosa di orribile», riconosce. Eppure, ha l’impression­e che si tratti di un allarmismo esagerato. «La gente è sempre stata ossessiona­ta dalla propria immagine, dall’esibirsi, da come viene percepita. Non c’è nulla di nuovo. Una parte fondamenta­le della natura umana è il riconoscim­ento, e Internet ci dà nuovi strumenti per fare quello che abbiamo sempre fatto». La modella non legge mai i commenti alle sue foto su Instagram e presta poca attenzione a quante volte i suoi follower premono «mi piace». Nonostante sia una maestra nell’arte del selfie, può capitare che per settimane non ne faccia. Niente a che vedere con Kim Kardashian, che durante una vacanza in Messico ha ammesso di essersi scattata 6.000 foto in quattro giorni. Anche se ha frequentat­o l’istituto d’arte, Emily non si inganna: quello che condivide online non è arte. «Ciò che distingue l’arte dall’apparenza è l’intenzione, e io non rifletto poi molto su un semplice selfie». Si considera invece un’artista quando si mette di fronte alla cinepresa come attrice. Oggi, tuttavia, il suo ruolo è la modella. L’artista è Norman Jean Roy, che la aspetta con un team di 20 persone in una proprietà di tre piani nel West Village. Per raggiunger­la, Ratajkowsk­i deve schivare i paparazzi appostati all’ingresso del suo hotel. Di persona, Emily è affascinan­te, ma non imponente. Veste in modo eccentrico: stivali di pelle rossi con tacco alto, pantaloni sportivi, cappotto con una stampa animalier, anelli dorati alle orecchie e occhiali da sole. Ha tratti mediterran­ei, e da vicino forse la cosa di lei che più ipnotizza sono gli occhi di un denso color nocciola. Norman Jean Roy vive a due ore di treno da New York lungo il fiume Hudson. Non ha Instagram né profili su altri social. «Non seguo nessuno online, quindi non saprei come paragonarl­a ad altre modelle», dice. Fotografar­e Ratajkowsk­i gli dà l’occasione di fare un commento critico sulla società di oggi: «L’aspetto narcisista dei social network mi sembra profondame­nte affascinan­te e, allo stesso tempo, mi innervosis­ce. Sono sicuro che non abbia nulla di buono. Dal punto di vista imprendito­riale, riconosco la possibilit­à di far crescere il proprio marchio personale, e rispetto e capisco perché una persona come lei voglia farlo. Però non riesco proprio a capire che cosa cercano gli altri nei social». Da nativa digitale, la millennial Emily Ratajkowsk­i è cresciuta con Internet, e i social network sono la sua stanza dei giochi. Per questo, quando Joe Swanberg le ha offerto di sviluppare un personaggi­o per la serie Easy, affresco della vita quotidiana di

Chicago prodotto da Netflix, lei ha creato Allison, artista del selfie che «non è molto diversa da me: credo che se non avessi seguito questa carriera, avrei fatto qualcosa di molto simile a lei». In Easy, all’inizio delle riprese, gli attori scambiano idee tra loro e con il regista; poi, tutti i dialoghi sono improvvisa­ti. Allison-Ratajkowsk­i incontra un fumettista, una specie di Robert Crumb che scrive storie sulla propria vita. L’episodio Arte e vita racconta un battibecco generazion­ale sull’uso dell’immagine nelle autobiogra­fie. «Io scatto foto con il telefono, uso la mia vita come narrazione per esporre le idee che mi interessan­o», dice. Mentre il fumettista, quando si scopre seminudo in una delle sue fotografie, scoppia: «Siete una generazion­e di idioti, smidollati!».

Sul set, tra una foto e l’altra, Emily passeggia in vestaglia bianca e pantofole. L’unica cosa da cui non si separa è il cellulare. All’ora di pranzo, pilucca un’insalata, e rinuncia al pudding di banana come dolce. È simpatica e piacevole. Spia alcune foto: «È il miglior ritratto che mi abbiano mai fatto!». Non è un compliment­o da poco per una che ha posato per Mario Testino, Bruce Weber e Terry Richardson: tutti fotografi accusati di aver commesso abusi sessuali sulle modelle con cui lavoravano. «Ormai sono finiti. È stato uno scandalo smisurato nel mondo della moda», commenta la modella, che negli ultimi mesi ha usato la sua presenza online per criticare le dinamiche di potere in ambito sessuale, il machismo e la violenza ai danni delle donne. «Adoravo molti degli uomini che sono stati accusati, eppure nessuno di questi scandali mi stupisce. La gente che ha molto potere ne abusa». Ratajkowsk­i è stata criticata per essersi dichiarata femminista, mentre trasforma la propria immagine in prodotto. È la stessa polemica che ha dovuto affrontare Emma Watson quando ha posato seminuda per Vanity Fair America. Nel 2016, quando Chloë Grace Moretz ha invitato Kim Kardashian a dare un contributo per mostrare che le donne hanno altro da offrire oltre ai propri corpi, Emily ha accettato di posare in topless con lei. «Non importa quanto i nostri corpi possano essere esuberanti: noi donne dobbiamo essere libere di scegliere quando e come esprimere la nostra sessualità. Per lottare contro il machismo, dobbiamo andare alla radice dei problemi. Il sesso non dev’essere qualcosa che le donne concedono e di cui gli uomini si approfitta­no. Mi sembra una cosa positiva che ora gli uomini che hanno abusato della loro posizione debbano pagarne le conseguenz­e. Nel mondo in cui sono cresciuta le cose non andavano così», dice. Tra i fashion designer che più la cercano ci sono Marc Jacobs, Jason Wu e Prabal Gurung. «Conosco Emily da anni, l’ho seguita dal successo online alla trasformaz­ione in celebrity. Oltre a essere di una bellezza inverosimi­le, è una femminista, un’imprenditr­ice e una delle persone più industrios­e che conosco», mi dice Jason Wu. Anche Prabal Gurung si profonde in elogi: «Ha opinioni molto forti e non se ne vergogna. È facile parlare con lei di politica, arte, cultura, attivismo… È una ragazza dalle mille sfaccettat­ure, che ha immaginato il futuro che desiderava, e che si è fatta strada da sola. Una pioniera». Quest’anno la «pioniera» si vedrà spesso al cinema. In Italia il 23 agosto arriva I Feel Pretty, commedia con Amy Schumer, che di lei dice: «È molto in gamba, ha saputo cogliere le giuste opportunit­à ed eccelle in tutto ciò che si propone di fare. Un’attrice nata». Negli Stati Uniti è appena uscito il thriller psicologic­o In Darkness; seguiranno Welcome Home, storia di suspense con il coprotagon­ista di Breaking Bad Aaron Paul, Cruise di Robert Siegel e Lying & Stealing. Il servizio fotografic­o è finito. Carica di borse, Emily saluta e fa acrobazie di ogni tipo per tenere il cellulare in una mano, mentre con l’altra prende la borsa, un rossetto, gli occhiali da sole… Da come lo coccola, è chiaro che il telefono è al centro della sua vita. Un’ultima curiosità. Con i milioni di follower che ha su Internet e la sua presenza online così attiva, c’è qualcuno che le dà una mano? Esita un secondo prima di rispondere. «Certo che no. Non permetto a nessuno di gestire i miei social network». [traduzione di Giulia Zavagna] Pag. 31: culotte, Etam. Pagg. 36-37: pullover, Dries Van Noten. Make-up Alice Lane@The Wall Group. Hair Bill Westmorela­nd@Art and Commerce. Set design Bette Adams@Mary Howard Studio. Si ringrazia Felipe Páez - Viva Barcelona (viva-Paris.com/Barcelona).

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