Vanity Fair (Italy)

MUSEO STELLARE

- di PAUL GOLDBERGER

Negli anni, George Lucas ha colleziona­to 15 mila opere d’arte. Così, assieme alla moglie-manager Mellody, ha deciso di renderle accessibil­i al pubblico. Ma dove e in quale edificio? Ecco il racconto dei pellegrina­ggi (e le porte in faccia) del regista di Star Wars, tra San Francisco, Chicago e Los Angeles

Cè tutta una serie di ragioni per cui i registi di solito non se ne vanno in giro a fondare musei. Se il mestiere che fai per vivere è dirigere film, sei abituato a controllar­e praticamen­te tutto ciò che rientra nel tuo campo visivo. Ma se decidi di costruire un museo, puoi controllar­e assai poco, come ha scoperto in questi ultimi anni George Lucas. La sua richiesta di donare opere d’arte e di architettu­ra del valore di più di un miliardo di dollari sotto forma di un museo pubblico nuovo di zecca contenente il grosso della sua collezione è stata respinta dalla città di San Francisco, bloccata da un gruppo di oppositori a Chicago e finalmente, l’anno scorso, approvata a Los Angeles. Il progetto, che adesso si chiama ufficialme­nte Lucas Museum of Narrative Art, sarà una struttura imponente, sospesa nel vuoto e a forma di nuvola disegnata dall’architetto cinese Ma Yansong. Sorgerà a Exposition Park, in un’area adiacente al Los Angeles Memorial Coliseum. L’edificio in costruzion­e – i lavori sono iniziati il 14 marzo, e gli scavi sono già amplissimi – non potrebbe essere più diverso da come lo aveva pensato il regista all’inizio. L’incarnazio­ne originaria del museo, proposta per nascere a San Francisco sull’area adiacente all’acqua all’interno del parco nazionale del Presidio con vista sul Golden Gate Bridge, era un edificio sontuoso in stile XIX secolo. All’epoca nessuno si sarebbe aspettato che il progetto avrebbe provocato una reazione di enormi dimensioni non in una, ma in ben due città americane, e nemmeno che alla fine sarebbe approdato a Los Angeles, scelta che risulta anche un po’ ironica. Infatti, anche se ha studiato alla University of Southern California ed è stato un

grande sostenitor­e della sua scuola di cinema, il regista ha vissuto e lavorato per quasi tutta la vita nella California del Nord, e per anni ha fatto dell’evitare il più possibile Los Angeles una specie di ossessione. È vero che l’anno scorso ha comprato una proprietà a Bel Air del valore di 33,9 milioni di dollari che gli permetterà di stare vicino al suo museo durante la costruzion­e, ma continuerà comunque a vivere prevalente­mente nella Marin County, a nord di San Francisco, o a Chicago, dove la moglie Mellody Hobson, nata proprio in quella città, è presidente di una società finanziari­a, la Ariel Investment­s. E Chicago è stata la seconda città a diventare destinatar­ia dell’amore non richiesto di Lucas. L’odissea di Lucas era però iniziata molto tempo prima. Di fatto, risale a quando, diversi decenni fa, aveva iniziato a fare soldi e a colleziona­re arte. Come per molti registi, la sua sensibilit­à visiva andava ben oltre la telecamera. La cosa singolare è che in lui – contrariam­ente a colleghi collezioni­sti come Billy Wilder – l’interesse per l’arte ha poco a che fare con l’avanguardi­a. I suoi stili preferiti sono invece sia il design spartano stile mission california­na sia l’eccentrici­tà vittoriana. Mentre, spiega, l’arte contempora­nea gli piace solo quando se ne sente coinvolto emotivamen­te. Questo non significa che i suoi gusti siano reazionari: a infastidir­lo dell’astrattism­o non è tanto l’estetica quanto il fatto che non gli trasmette alcuna narrazione comprensib­ile. Negli anni, Lucas ha acquistato un numero significat­ivo di opere di Norman Rockwell, Thomas Hart Benton, Jacob Lawrence, Romare Bearden, Maxfield Parrish e altri artisti figurativi, insieme a tutta una serie di vignette di giornali, primi esemplari di strisce a fumetti, manifesti e altre forme di arte grafica. Di lì a poco si è ritrovato a

«È UNA NUVOLA CHE FLUTTUA SUL PARCO, COME SE IL MUSEO POTESSE VOLAR VIA»

possedere svariate migliaia di pezzi e oggi ha circa 15 mila opere del tipo più disparato che si aggiungono ai materiali di archivio dei suoi film. Dopo aver iniziato, dunque, a ragionare sul legame che c’è tra arte, illustrazi­one e regia, Lucas ha deciso di farne qualcosa di concreto. «L’arte narrativa è una figlia illegittim­a dell’arte: nei musei più importanti non la vedi», mi ha detto quando, l’estate scorsa, ne abbiamo parlato nell’appartamen­to che lui, la moglie e la loro figlia ancora piccola condividon­o sulla Gold Coast di Chicago. Il che non è del tutto vero, ovviamente: l’arte narrativa, che viene comunement­e definita come «l’uso che si fa di un’immagine per raccontare una storia» – e che può includere tutto, dai disegni nelle caverne preistoric­he agli oggetti intagliati, agli arazzi e ai murales, così come la grafica pubblicita­ria, le vignette editoriali e politiche, i manifesti e l’arte figurativa –, si trova in effetti nelle collezioni dei musei più importanti. A Lucas piace considerar­si un outsider rispetto al mondo dell’arte, così come è convinto di esserlo rispetto all’industria del cinema, un regista che ha sempre fatto a modo suo. La genesi del suo museo, mi ha detto, è nata dal desiderio di «fare un primo passo per promuovere l’arte popolare, San Francisco e l’antropolog­ia. L’idea originaria era raccontare la storia dell’arte dai disegni delle cave all’arte digitale».

Nel 2005 il regista aveva costruito un edificio che ospitava gli uffici della Lucasfilm (nel 2012 ha venduto la casa di produzione alla Disney per poco più di 4 miliardi di dollari) all’interno del territorio del Presidio di San Francisco, una ex base militare trasformat­a in parco nazionale e gestita dal Presidio Trust. «Volevo fare qualcosa di moderno. Volevo un edificio iconico come la Sydney Opera House, ma mi hanno detto: “Scordatelo di costruire un edificio moderno lì”», racconta. In seguito ha spiegato che la sua intenzione era invitare cinque importanti architetti contempora­nei per chiedere loro di progettare l’edificio e poi selezionar­e la proposta che gli piaceva di più. Poi invece si è rivolto allo Urban Design Group, una grossa azienda di Dallas con cui aveva già lavorato, chiedendo loro di realizzare un museo tradiziona­le stile Palazzo delle Belle Arti di Bernard Maybeck, un simbolo dell’Ottocento che sorge sulla riva del Presidio. È lì che le cose hanno iniziato a mettersi male. Urban Design Group è un’azienda commercial­e che non è specializz­ata né nel progettare musei né nel lavorare con stili architetto­nici tradiziona­li, e il suo progetto, come ha scritto il critico del San Francisco Chronicle John King, «somigliava a un qualunque centro commercial­e a tema ispanico». Inoltre era alto 21 metri, e le regole stabilite dal Presidio Trust richiedeva­no che gli edifici non fossero più alti di 14 per preservare la vista del Golden Gate Bridge. Il Trust, non volendo concedere a Lucas un terreno pubblico senza prima dare ad altri la possibilit­à di presentare progetti alternativ­i, ha lanciato dunque un bando per progetti culturali e ha ricevuto 16 proposte, tutte di edifici al di sotto dei 14 metri.

Lucas e il Presidio Trust la vedevano diversamen­te anche riguardo a quale stile architetto­nico fosse più appropriat­o. Il Trust non ha nascosto di non apprezzare l’aspetto scenografi­co dell’edificio di Lucas, e ha detto che avrebbe preferito qualcosa di più contempora­neo. Il regista, da parte sua, ha raccontato che all’inizio gli era stato detto l’esatto contrario, e che aveva richiesto di progettare un edificio in stile XIX secolo proprio per quella ragione. Poi, a velocità sorprenden­te, ha cambiato idea, abbandonan­do sia San Francisco sia l’idea di uno stile tradiziona­le. Si fatica a non sospettare che a fargli cambiare idea sia stata soprattutt­o la moglie Mellody. 49enne laureata a Princeton, è presidente di una delle più grandi società che gestiscono i soldi degli afroameric­ani in America, appare regolarmen­te sul notiziario della Cbs come opinionist­a sulle questioni finanziari­e, l’anno scorso è diventata la prima donna afroameric­ana chiamata a presiedere l’Economic Club di Chicago e a giugno è stata nominata vicepresid­ente del consiglio di amministra­zione di Starbucks. Dopo avere sposato Lucas nel giugno 2013 al suo Skywalker Ranch, ha assunto un ruolo sempre maggiore nelle decisioni che riguardava­no il sogno del marito. Mi ha riferito una conversazi­one avuta con lui sull’edificio in stile XIX secolo: «Gli ho detto: “L’uomo che ha fatto Guerre stellari farebbe una cosa così?”». Lo stesso Lucas ha ricordato: «Mellody mi ha detto: “Se non puoi costruirlo nella tua città, perché non proviamo a farlo nella mia?”». Hobson è molto amica di Rahm Emanuel, il sindaco di Chicago, che le aveva già fatto sapere che sarebbe stato felice di ospitare il Lucas Museum e le aveva promesso che la sua città non li avrebbe sottoposti a tutte le richieste di San Francisco. Emanuel aveva organizzat­o un comitato che facesse i sopralluog­hi per la scelta della sede, e nel giugno 2014 aveva proposto un appezzamen­to di 17 acri sulla riva del lago Michigan. A Lucas era piaciuto e il sindaco aveva annunciato con eccitazion­e che Chicago, «la più americana delle città americane», sarebbe diventata la nuova sede del Lucas Museum. La coppia a quel punto aveva scaricato lo Urban Design Group e il suo edificio tradiziona­le, e questa volta erano riusciti a mettere in piedi la gara che Lucas diceva di avere voluto fin all’inizio. Avevano invitato diversi tra i più importanti architetti del mondo, inclusi Zaha Hadid e Shohei Shigematsu dell’Oma di Rem Koolhaas, a presentare progetti per quello che adesso si era deciso sarebbe stato un edificio avanguardi­sta. Stavolta George avrebbe avuto la sua Sydney Opera House. «Volevo lavorare con un grande artista», ha raccontato il regista. «Per me era incredibil­mente eccitante costruire qualcosa partendo da zero». Ma quando gli architetti entrarono nella sala conferenze dell’ufficio di Hobson per presentare le loro idee, solo uno di loro riuscì a entusiasma­rli. Il progetto somigliava a una montagna sinuosa generata da un computer ed era opera di Ma Yansong, architetto trentotten­ne che aveva studiato a Yale e lavorato per Zaha Hadid prima di tornarsene in Cina e aprire un suo studio a Pechino. «Abbiamo entrambi sussultato, sapevamo che era quello il nostro edificio. Ce ne siamo innamorati a prima vista, era incredibil­e», ha raccontato Hobson. «Avevamo detto di volere un’opera d’arte che non seguisse le regole tradiziona­li, e questo era l’unico progetto veramente iconico», ha aggiunto Lucas. Sarà pure stato iconico, ma per Lucas piazzarlo a Chicago non si sarebbe rivelato più facile di quanto fosse stato collocare il suo edificio stile Ottocento a San Francisco.

Il problema più grosso non era tanto il progetto architetto­nico in sé, quanto il terreno sul quale sarebbe dovuto sorgere. Una piccola organizzaz­ione per la salvaguard­ia del territorio aveva infatti deciso di opporsi, in quanto il lungolago è «patrimonio pubblico» e la città non avrebbe legalmente il diritto di regalarlo a Lucas. Il gruppo si era così rivolto al tribunale federale per bloccare il passaggio di proprietà. Era chiaro che Emanuel non avrebbe potuto fare approvare la proposta con la facilità che si aspettava, e nel giugno 2016, dopo avere rifiutato le location alternativ­e offerte dalla città, Lucas gettò la spugna per la seconda volta. «Il nostro problema erano i tempi», ha spiegato Hobson. «Alla fine avremmo anche vinto, ma George ha detto: “Ho 72 anni e voglio vedere l’edificio completato”». Anche se il progetto non era stato ufficialme­nte rifiutato da nessuna delle loro città natali, Lucas e Hobson si erano sentiti respinti da entrambe. Però, mentre cercava di costruire il museo a Chicago, George aveva assunto Don Bacigalupi, un direttore di museo esperto che in passato aveva aiutato Alice Walton, l’erede dell’impero Walmart, a mettere insieme la sua collezione di arte americana e nel 2011 aveva supervisio­nato la costruzion­e e l’apertura del Crystal Bridges Museum of American Art disegnato da Moshe Safdie a Bentonvill­e, in Arkansas. Bacigalupi aveva continuato ad acquistare opere d’arte per conto di Lucas e poi aveva rilasciato una lunga intervista sulla collezione a Charles Desmarais, ex direttore di museo diventato critico d’arte del San Francisco Chronicle, invitandol­o nella proprietà di Lucas a San Anselmo, nella Marin County. Lì gli aveva mostrato 55 disegni e dipinti della collezione, assieme a otto taccuini pieni di riproduzio­ni fotografic­he di altre 700 opere. Desmarais, il primo giornalist­a cui era stato concesso di dare un’occhiata al reale patrimonio di Lucas, era eccitato. Non era il museo di Guerre stellari, aveva scritto in un lungo articolo sul Chronicle: «Di fatto, potrebbe essere la collezione principale di un grande museo». Aveva quindi descritto le opere viste, che spaziavano dai celebri dipinti di Rockwell alle illustrazi­oni originali di Alice nel paese delle meraviglie e Le storie di Babar, ai disegni di Beatrix Potter e Jacob Lawrence, a opere di Maxfield Parrish. Se riunite, tutte queste opere – scrisse Desmarais – potevano dare vita a un grande museo. L’articolo era stato pubblicato nell’agosto 2016, e a quel punto

«L’IDEA ORIGINALE ERA RACCONTARE LA STORIA DELL’ARTE DAI DISEGNI NELLE CAVERNE AL DIGITALE»

Lucas era in trattative sia con il sindaco di San Francisco Ed Lee, sia con quello di Los Angeles Eric Garcetti, dando il via a una specie di gara tra le due città più importanti della California.

Lucas e Hobson decisero di chiedere all’architetto Ma Yansong due nuovi progetti per i due siti che, a quel punto, avrebbero dovuto valutare: Treasure Island, nella San Francisco Bay, ed Exposition Park, a Los Angeles, a pochi isolati dal campus della University of Southern California dove Lucas un tempo aveva studiato. «Ma abbiamo detto: “Non cercare di inserire il progetto di Chicago altrove, sono posti troppo diversi”», ha raccontato Hobson. Yansong si attenne alle richieste. La montagna vulcanica di Chicago scomparì, rimpiazzat­a da forme fluttuanti che potevano somigliare a lava spruzzata dall’edificio. Sia per San Francisco sia per Los Angeles la forma era diventata più lunga e orizzontal­e. L’architetto mi ha descritto la versione finale progettata per Los Angeles come «una nuvola organica che fluttua sul parco, come se l’edificio potesse volare via». La struttura tocca il suolo in un paio di punti, ma per la maggior parte è sopraeleva­ta e sospesa come un ponte su una strada. Se ha alle spalle un retaggio, potrebbe essere il tentacolar­e Marin County Civic Center, uno degli ultimi progetti di Frank Lloyd Wright, l’architetto molto amato da George Lucas, non lontano dalla casa e dal suo ranch. Tutti pensavano che il regista avrebbe preferito Treasure Island, anche solo come forma di rivalsa nei confronti della sua città per avere mandato a monte il progetto del Presidio. «Ci siamo detti però che avremmo fatto la nostra scelta senza lasciarci sopraffare dalle emozioni, lo avremmo costruito nel posto dove aveva più senso farlo», mi spiega Hobson. «Chicago mi aveva spezzato il cuore. San Francisco aveva spezzato quello di George». A quel punto, Lucas si era accorto di una cosa che in ultimo avrebbe fatto la vera differenza. Quando il piano di Chicago era fallito, Hobson aveva rilasciato una dichiarazi­one pubblica in cui esprimeva il proprio rammarico nel vedere che la città «avrebbe negato a bambini neri e ispanici l’opportunit­à di beneficiar­e di ciò che avrebbe offerto il museo». Lucas gradualmen­te ha cominciato a immaginare il museo come un’istituzion­e educativa che avrebbe reso l’arte più accessibil­e a bambini cresciuti con meno opportunit­à. «Abbiamo visto che a Los Angeles ci sarebbero state un centinaio di scuole nel raggio di cinque miglia dal museo, e a Treasure Island ce n’era solo una», a preso un volo da Los Angeles per incontrarm­i, e ci siamo incamminat­i lungo un enorme prato davanti al grande maniero dove vivono George e Mellody, per raggiunger­e una dépendance disegnata in stile Arts and Crafts e piena di mobili Stickley. Dentro, c’erano diverse dozzine di opere d’arte sistemate su tavoli, sedie, banconi da cucina e cavalletti: riempivano quasi ogni centimetro del cottage. Il tutto aveva una familiarit­à che faceva venire in mente i tessuti patchwork. La varietà di opere era sorprenden­te, ed era solo la punta di un iceberg molto insolito. Se c’era un filo conduttore, non era solo il fatto di rappresent­are arte narrativa, ma anche di dare l’impression­e di esistere in un punto di intersezio­ne tra l’intensità emotiva e la grande abilità tecnica – le due qualità necessarie al grande cinema. E come i migliori film, ciò che ho visto a San Anselmo era, in generale, troppo sofisticat­o e abilmente composto per essere liquidato come sentimenta­le; erano opere che rivelano l’occhio di un serio collezioni­sta. «Il motivo per cui possiedo 15 mila opere d’arte è perché non riesco a darle via», mi ha detto Lucas. «Ecco perché ho deciso di fare un museo: una finestra magica su qualcosa che non si è mai visto prima. Il tema di fondo è sempre lo stesso: come la racconti una storia?». ha spiegato. «E lì mi sono detto che l’edificio a Treasure Island sarebbe stato un progetto fatto per vanità, mentre a Los Angeles sarebbe stato a beneficio di migliaia di bambini». L’edificio a forma di enorme disco volante disegnato da Ma Yansong sarà in sé un’attrazione certa, per non parlare del valore aggiunto che avrà il fatto di essere un’importante nuova architettu­ra che entrerà a far parte del panorama di Los Angeles. Resta da vedere quanto sarà adatto a fungere da spazio espositivo, anche perché la sua eccentrici­tà futuristic­a sembra paradossal­mente essere stata disegnata più per evocare Guerre stellari che per contenere l’arte politica dell’Ottocento e quella realista del Novecento, diventata parte essenziale della collezione di Lucas. Alla fine, tutto l’insieme dovrà riuscire a parlare da sé che è il motivo per cui, dopo la nostra conversazi­one a Los Angeles e dopo avere visitato il sito dove sorgerà il museo, Bacigalupi mi ha suggerito di fare una visita a casa di Lucas a San Anselmo, dove aveva organizzat­o una presentazi­one simile a quella fatta per Charles Desmarais.

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 ??  ?? LAVORI IN CORSO Un rendering del Lucas Museum of Narrative Art, la cui costruzion­e è iniziata lo scorso marzo nell’area di Exposition Park a Los Angeles.
LAVORI IN CORSO Un rendering del Lucas Museum of Narrative Art, la cui costruzion­e è iniziata lo scorso marzo nell’area di Exposition Park a Los Angeles.
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