GENTE DI DUBLINO
Dalla prima nomination all’Oscar a 13 anni al successo annunciato di un film in cui sarà Maria Stuarda. Saoirse Ronan racconta l’amore per il suo lavoro e per il suo Paese che, come lei, è stato capace di evolversi. E la passione per un regista italiano: «Mi innamoro di ogni cosa che fa»
Saoirse Ronan mi sta raccontando cosa le è successo quando ha concluso il suo primo lavoro come attrice. «Sono sprofondata in uno stato malinconico che è durato settimane», dice. «Ricordo che me ne stavo seduta sul letto, con la mamma accanto a me, e le dicevo: “È un’esperienza che non si ripeterà mai più”». La comunità che si era formata sul set, e nella quale erano nati legami autentici, si era dissolta per sempre. «Pensavo: questo specifico gruppo di persone non lavorerà mai più insieme. Mai». Il set era quello della serie televisiva irlandese The Clinic. All’epoca, Ronan aveva nove anni. Oggi ne ha ventiquattro, e la incontro in una cittadina costiera irlandese. L’Irlanda ha votato da pochi mesi il referendum che a stragrande maggioranza ha deciso l’abrogazione del divieto di aborto, e ovunque sono affissi inquietanti manifesti raffiguranti feti. Lei stessa è da poco apparsa in un video a sostegno della campagna per i diritti riproduttivi – un movimento popolare di lungo corso che è infine riuscito a imporre al governo la convocazione del referendum – e in giro non si parla d’altro. Nel caffè dove ci fermiamo a comprare il pranzo, ci ritroviamo a discutere del voto con la cameriera. Ronan, nata come me negli anni Novanta, è cresciuta in un’Irlanda attraversata da rapidi mutamenti sociali. Il controllo della Chiesa cattolica sulle istituzioni statali cominciava ad attenuarsi, l’omosessualità veniva depenalizzata, il divorzio diventava legale, e per la prima volta i contraccettivi erano facilmente accessibili. Nel 2015, quando Ronan aveva ventun anni, l’elettorato irlandese sancì il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso con una maggioranza del 62%. Lei quel giorno se lo ricorda: «Attraversavo in macchina la zona nord di Dublino, e tutti avevano appeso le bandiere», racconta. «C’erano feste improvvisate per strada. La sensazione era che fossimo entrati in una nuova fase. Come se ci fossimo svegliati». Le chiedo se ha mai temuto ripercussioni negative, esprimendo le sue opinioni sull’aborto, da sempre un argomento particolarmente controverso in Irlanda. «La cosa mi sembrava irrilevante», risponde. «Conosco gente che per abortire è dovuta andare all’estero, ed è per quello che ho deciso di prendere posizione». All’indomani del referendum, Ronan mi parla dell’euforia che ha provato alla diffusione dei primi risultati. Si è sentita «davvero orgogliosa», dice, «vedendo parenti e amici, e anche persone dalle quali non me lo sarei mai aspettato, scegliere di riconoscere alle donne irlandesi i loro diritti».
Nel poco tempo libero a disposizione preferisce cucinare, andare ai concerti e al cinema. (Tully le è sembrato «un film molto coraggioso», dice, «e m’innamoro di qualsiasi cosa faccia Luca Guadagnino»). Ronan ha ottenuto la prima nomination all’Oscar a tredici anni, per la sua interpretazione in Espiazione, l’adattamento del romanzo di Ian McEwan diretto da Joe Wright. Nel 2015 era il cuore pulsante di Brooklyn, il film di John Crowley tratto dal romanzo di Colm Tóibín, e quest’anno ha vinto il Golden Globe per il ruolo che dà il titolo a Lady Bird di Greta Gerwig. Pur essendo riuscita a costruirsi una carriera impressionante anche senza una saga di supereroi a occupare stabilmente i multiplex, Ronan non è contraria per principio a ruoli del genere. «È che non me ne hanno mai offerti!», esclama ridendo. «Se mi arrivasse una sceneggiatura solida, interessante, originale, io accetterei. Una buona sceneggiatura resta una buona sceneggiatura». Il vento è fresco, e le nuvole hanno steso un velo bianco sull’orizzonte. Ronan mi invita da lei per un tè. Sulla via di casa, mi spiega che è diventata molto protettiva verso i colleghi più giovani, persone come Timmy, l’attore Timothée Chalamet, protagonista di Chiamami col tuo nome e suo comprimario in Lady Bird, che ha un annetto in meno. Sottolineo che anche lei è ancora giovane. «Lo so», si corregge. «Tendo a chiamare giovani gli altri. Io non mi sono mai sentita giovane», ammette. Quando raggiungiamo la casa, in una tranquilla via residenziale dalla quale la separa un lungo viale d’accesso, la sua cagnolina Fran ci corre incontro e mi offre la zampa. «È un genio», commenta Ronan ammirata, «un genio assoluto». Mentre la madre Monica ci serve gentilmente tè e biscotti, Ronan mi racconta gli inizi della sua carriera. Il padre Paul, un attore con trascorsi televisivi e cinematografici, si era accorto che la figlia adorava stare davanti alla telecamera, e così cominciò a proporla per alcuni provini. Dopo il successo di Espiazione, Ronan lasciò la scuola e cominciò ad alternare gli studi a casa con un calendario di lavoro serrato. Durante tutta l’adolescenza è stata accompagnata sul set dai genitori, il più delle volte dalla madre. Anche se oggi parla dell’industria cinematografica con affetto e giura di non essere mai stata sfruttata, qualche esperienza sgradevole la ricorda. Una volta un regista calcò un po’ troppo la mano su una scena particolarmente delicata, approfittando del fatto che Ronan era giovane e desiderosa di assecondare. «Mia mamma è entrata sul set», racconta, «e ha detto: “Questa cosa non la ripetete finché non avremo stabilito esattamente quali sono i limiti”. Sono stata molto fortunata ad avere con me una persona in grado di proteggermi». Ma i suoi genitori non si sono limitati a proteggerla. Studiando a casa e viaggiando in continuazione, Ronan non è mai riuscita a
«LA FINE DI UN FILM MI METTE SEMPRE MALINCONIA. PENSO: QUESTE PERSONE NON SI VEDRANNO MAI PIô»
crearsi un gruppo di coetanei stabile, come succede alla maggior parte degli adolescenti, e per colmare quel vuoto ha dovuto in un certo senso affidarsi alla famiglia. Oggi l’affetto profondo che la lega alla madre si evince non solo dal modo in cui parla di lei – come di una custode fidata – ma anche da quanto le è risultato difficile abituarsi a stare sul set senza Monica al suo fianco. «Quando ho cominciato a lavorare da sola», mi racconta, «non avevo più una persona a cui poter chiedere: “Vi è piaciuto?”. Mi è venuta a mancare la coperta di Linus». Ronan parla del suo lavoro più in termini di vocazione che di mestiere. «Ha qualcosa di molto intimo», dice. «Ci sono momenti in cui ti sembra di essere sola con l’obiettivo». La sensazione di un’esperienza quasi privata ha a che fare con i tanti anni dedicati alla recitazione: «Nella mia vita è stata un elemento molto stabile, costante. La cinepresa è la presenza che mi accompagna da più tempo». Tóibín, che ha fatto amicizia con Ronan durante le riprese di Brooklyn, sottolinea che «da ragazzina, quando tutti gli altri andavano a ballare nei dintorni di Carlow, Saoirse lavorava». Quando le chiedo se si sente mai triste o frustrata all’idea di non aver potuto vivere una giovinezza normale, mi risponde: «È ovvio che da adolescenti tutti vogliono sentirsi parte di qualcosa. Per me quella cosa era il set, quindi lavoravo un sacco».
Quand’era già una star ma ancora una bambina, nessuno si aspettava che Ronan divulgasse informazioni sulla sua vita privata, perché in genere non si pensa che i bambini ne abbiano una. Oggi dice: «Credo che la gente abbia capito che certe cose non deve chiedermele. Non dirò mai con chi esco, né dove vivo. Dirò pochissimo sulla mia famiglia». Le sue amicizie più strette risultano essere quella con Scarlett Curtis, un’amica d’infanzia oggi scrittrice e come lei attivista femminista, e quella con Eileen O’Higgins, sua coprotagonista in Brooklyn, dalla quale Ronan si è fatta accompagnare ai Golden Globe. A volte, però, il lavoro finisce per avere la precedenza sulla vita privata. «Quando lavoro non riesco a fare praticamente nient’altro», dice. «Non posso uscire, non posso vedere gente, non leggo nulla». Sorride. «Qualcuno mi ha detto: “Tu, quando si tratta di lavoro, sei monogama”. Ed è verissimo. Ci si può impegnare solo con una cosa alla volta». Quando un lavoro finisce, torna quello «stato malinconico» sperimentato per la prima volta quando aveva nove anni, il lutto per l’ennesima comunità di attori e troupe dissolta. «È una cosa che non passa mai del tutto», mi dice. «Impari solo a conviverci». E perché un nuovo progetto riesca a rimpiazzare il precedente ci vuole tempo. «All’inizio di un lavoro penso sempre: “Stavolta non ci riesco. Ho dimenticato come si fa”». Una settimana dopo ho appuntamento con Ronan alla Hugh Lane Gallery, un museo di arte moderna e contemporanea nel centro di Dublino. Oggi pomeriggio il cielo è coperto, ma siccome all’interno fa sorprendentemente caldo ci sfiliamo velocemente giacche e cardigan. Ronan dice di apprezzare le arti visive, ma è una di quelle persone che amano osservare con calma. «Perché è vero che l’arte, più la si guarda, più è come se prendesse vita». Passeggiando per le sale si ferma davanti al dipinto Opium di Maurice de Vlaminck, ritratto cubista di una donna seduta, dai capelli biondo-rossicci, che fuma una pipa. «Assomiglia un po’ a Maria Stuarda», osserva. Per entrare nei panni della sovrana, Ronan si è basata, come fa spesso, sui punti di contatto che intuiva fra sé e il personaggio. «I paragoni che potrei fare sono tantissimi», dice, osservando che un attore, così come una regina, «deve essere sempre “acceso”». È del 2012 l’annuncio che Ronan avrebbe interpretato il ruolo principale nel biopic sulla monarca, tornata adolescente dalla Francia per governare il suo Paese natale, la Scozia. In un’epoca che vedeva il trono d’Inghilterra conteso da casate rivali, Maria rappresentava una minaccia per il regno della cugina Elisabetta I. La prima, cattolica, discendeva dagli Stuart, mentre Elisabetta, protestante, rappresentava la casa regnante dei Tudor. Cinque anni dopo il coinvolgimento di Ronan nel progetto, con la regista teatrale Josie Rourke alla macchina da presa e Margot Robbie nel ruolo di Elisabetta, le riprese di Mary Queen of Scots sono infine cominciate.
Eosservandone l’intensità che comincio a capire la concentrazione, la dedizione totalizzante con cui Ronan affronta il suo mestiere, la determinazione a ignorare tutto il resto, l’inquietudine che la assale quando non lavora. E il dolore di un progetto che finisce. Avvicinandoci all’uscita del museo, le chiedo se si sente fortunata ad avere una vocazione. Per un attimo guarda altrove, la sua espressione cambia, e temo che la domanda l’abbia turbata. «Sì», dice. «È bello fare una cosa per cui sei felice di svegliarti!». Si sfrega il naso. «Se poi quel lavoro è una parte di te, diventa meraviglioso!», prosegue, «perché puoi dargli davvero tutto. E in cambio ricevi altrettanto. Migliori. Migliori come persona».
Pagg. 70-71: abiti, Prada. Orecchini, John Hardy. Pag. 73: cappotto, Michael Kors. Sciarpe, Miu Miu. Make-up Dick Page. Hair Damien Boissinot. Produzione Sylvia Farago Ltd. Produzione locale Yoke Productions.