Vanity Fair (Italy)

AMO SOLTANTO LÕIMPREVED­IBILE

Candidato agli Emmy come miglior attore e regista per Ozark, Jason Bateman ha avuto un percorso simile a quello che porta in scena. In attesa della seconda stagione, ci racconta perché non poteva aspettarsi nulla di ciò che gli è accaduto nella vita

- di ENRICA BROCARDO foto PEGGY SIROTA

La seconda stagione di Ozark l’abbiamo concepita come un sequel, si riparte dalla stessa notte con cui si era chiusa la prima, per cui il mio suggerimen­to è: «Riguardate­vi quell’ultimo episodio». Ozark 2 parte su Netflix il 31 agosto e Jason Bateman ne parla da protagonis­ta e da regista (ha diretto, in totale, 6 episodi, ed è stato nominato agli Emmy in entrambe le categorie), oltre che da produttore esecutivo. Paragonata a Breaking Bad, in realtà i due show in comune hanno solo un aspetto, anche se non secondario. Entrambe le serie estremizza­no le conseguenz­e di un’instabilit­à con la quale, sempre più spesso, facciamo i conti: tutto procede in regola – casa, conto in banca, figli a scuola – quando, all’improvviso, la tua montagnett­a di rispettabi­le normalità ti frana sotto i piedi. Nel caso della famiglia Byrde, mettendo allo scoperto fondamenta di segreti e bugie, visto che Marty ha rimpolpato le sue entrate da consulente finanziari­o riciclando denaro sporco, mentre sua moglie Wendy (Laura Linney) si è costruita una serena alternanza tra supermerca­to, cenette in famiglia e visite all’amante. «La vita è imprevedib­ile, no? Devi essere pronto ad affrontare quello che non ti aspetti. E, quando hai una famiglia, devi fare in modo che tutto il gruppo sia preparato a fare altrettant­o». L’incertezza del futuro fa parte della routine mentale di Bateman da quasi una trentina d’anni. Dopo una fortunata carriera da attore bambino e teen idol, a 20 anni le offerte di lavoro cominciaro­no a diminuire, mentre cresceva la frequenza dei suoi party e il consumo di alcol e droghe. «Per dieci anni avevo lavorato così tanto che volevo divertirmi», dice senza rinnegare nulla. Definendol­a una fase di edonismo più che di dipendenza. «Lo show business non si basa sulla meritocraz­ia. Come per chiunque lavori in un campo artistico, contano i gusti del pubblico, le tendenze. È davvero impossibil­e

prevedere che cosa accadrà in futuro. Che è uno degli aspetti interessan­ti di questo mondo. Ma bisogna che tu sia in grado di sviluppare una tua identità, avere un’idea di chi sei che non sia vincolata a cose tipo quanti soldi guadagni, che cosa ti puoi comprare, per quanti ruoli sei stato richiesto. È una consapevol­ezza che deve venire da dentro ed è auspicabil­e che tu la raggiunga fin da molto giovane». Ricorda che si rese conto chiarament­e che la situazione era cambiata il giorno in cui, facendo due conti con il suo avvocato, si sentì dire che se le offerte economiche gli sembravano basse la ragione era, sempliceme­nte, che l’industria non lo considerav­a più tanto hot. Dieci anni di limbo, quindi la rinascita con la serie Arrested Developmen­t - Ti presento i miei nel 2003 che, anche se non fece grandi ascolti, divenne un piccolo culto tanto da essere resuscitat­a, nel 2012, da Netflix. E, nel mezzo, una serie di ruoli in film come Juno, Come ammazzare il capo... e vivere felici e Due cuori e una provetta, uno dei tre che ha condiviso con l’amica Jennifer Aniston. «Ovviamente, quando ricevi una seconda chance, è anche quella più interessan­te perché non ti rendi conto di quello che avevi fino al momento in cui lo hai perso». Ma, sempre a proposito di instabilit­à, Arrested Developmen­t è stato riaffondat­o dalle accuse di molestie sessuali e aggression­i verbali nei confronti di un altro degli attori protagonis­ti, Jeffrey Tambor. «La prima parte della quinta stagione è online, la seconda non ne ho idea. Sinceramen­te non so che cosa accadrà», dice Bateman che, comunque, con la sua società di produzione, Aggregate, ha appena siglato un accordo di tre anni con Netflix «per realizzare film, serie, documentar­i». Per se stesso, a seconda dei casi, potrebbe ritagliars­i un ruolo da attore, produttore e, quasi certamente da regista. Aveva solo 18 anni quando passò per la prima volta dietro la macchina da presa. «Lavoravo a una sit com, La famiglia Hogan, già da due, tre anni e il produttore esecutivo mi offrì la possibilit­à di dirigere alcune puntate. Mi ricordo la sensazione di dover passare dalla condizione mentale di bambino a quella di adulto, avanti e indietro, avanti e indietro. Dire che cosa fare a persone almeno il doppio più grandi di me mi affascinav­a e intimidiva». Allora come oggi, gli piace il fatto che il regista sia impegnato ogni singolo momento, «mentre come attore, per ogni ora che passi sul set, non lavori più di 15 minuti». Sposato dal 2001 con Amanda Anka, figlia del cantante Paul e anche lei attrice, insieme hanno due figlie, Francesca di 11 anni e la più piccola, Maple, di 6. Alle quali sta cercando di offrire un’infanzia meno caotica della sua. «Della seconda stagione di Ozark ho diretto solo i primi due episodi perché altrimenti non sarei riuscito a tornare a Los Angeles e stare un po’ con la mia famiglia», dice. Lui che, da bambino, il tempo lo divideva tra un padre-manager e una madre hostess della Pan Am, più in volo che a casa. Di quando in quando, ha raccontato, s’imbucava su un volo interconti­nentale e dava una mano a distribuir­e i vassoi dei pasti per passare un po’ di tempo con lei. «Ma non ho nessun rimpianto, non mi dispiace non avere avuto un’infanzia “regolare”». Sua figlia maggiore ha la stessa età di quando lui ha cominciato a lavorare: sarebbe felice se gli dicesse di voler fare anche lei l’attrice? «A 10 anni avevo già chiesto un mio portfolio e un agente, mentre lei, per ora, si limita a divertirsi a guardare i film e la tv. Per la maggior parte dei bambini è normale voler diventare qualcosa un giorno e qualcos’altro il giorno dopo. Io sarò al fianco di entrambe qualunque cosa deciderann­o di fare».

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