IO, MARIO E L’ISOLA dell’utopia
Se la chiami musa ispiratrice si schermisce: «Preferisco dire che io e il regista dei film che scrivo amiamo le stesse cose». Ma Ippolita Di Majo, moglie di Mario Martone, si definisce soprattutto «curiosa». E sulla curiosità ha imperniato una storia di l
I l regista si siede in soggiorno, sua moglie in studio. Lei raccoglie materiali, lui scartabella. Si parlano, se è il caso discutono anche, ma dopo un po’ di solito si dicono «avevi ragione tu», «no, no, avevi ragione tu». Scrivono, ma mai insieme, perché «si può suonare a quattro mani, ma scrivere no», rileggono, rubano uno i pezzi dell’altra, e dal confluire delle loro scritture ne nasce una terza «che poi Mario immagina e diventa il film». Da questo – solo apparentemente contorto – lavoro creativo, che Mario Martone e Ippolita Di Majo condividono da anni, è nata anche l’ultima opera del regista e autore napoletano. Si intitola Capri-Revolution e sarà in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. «È la storia vera di una comune che si stabilisce sull’isola nei primi anni del Novecento». Racconta Di Majo: «Erano vegetariani, nudisti, pacifisti, animalisti, vestivano solo di fibre naturali, si ribellavano alle costrizioni. Potremmo dire che erano degli hippie, se non fosse che gli hippie sono nati più di 50 anni dopo. Erano la prima generazione di giovani post rivoluzione industriale, venivano dal Nord Europa, da famiglie benestanti. Cercavano di fronteggiare gli stessi problemi che abbiamo ancora noi, oggi». Come avete conosciuto questa storia? «Vedendo una mostra del pittore Karl Diefenbach a Capri. Lo conoscevo come artista, ma non sapevo che lui, sull’isola, aveva fondato una comunità utopica. Voleva andare in India, ma si è fermato lì. Il film non è la sua storia, e nemmeno la storia della comunità, quanto piuttosto il racconto fantasioso dell’incontro tra questi ragazzi e una giovane capraia dell’isola, Lucia – interpretata da Marianna Fontana – che viene da un contesto patriarcale e violento completamente diverso dal loro. Il contatto è forte per tutti: alterità totali che, incontrandosi, determinano un cambiamento. Lucia vede in loro una possibilità per emanciparsi». Studiando questa vicenda avete capito come la comunità era stata accolta dagli isolani? «Capri è da sempre il luogo di artisti e intellettuali, i capresi sono notoriamente gente aperta. In quegli anni, un’altra comunità utopica viveva sull’isola, quella comunista fondata da Gorkij, nella quale confluivano gli esuli russi. Due utopie molto diverse che convivevano. Comuni come quelle di Diefenbach c’erano anche in Germania e in Svizzera, al Monte Verità. Quella caprese è stata la più longeva e meno osteggiata: è finita con la morte del suo fondatore. Ogni esperimento utopico è stato comunque spazzato via dalla Prima guerra mondiale». L’utopia è un concetto che la affascina? «L’utopia è una tensione di cui sento il bisogno, anche se non la pratico e non la raggiungo. Questo non mi sembra un tempo per utopie, stretti come siamo tra l’incudine e il martello. Ma sono sempre pronta ad accendermi per delle belle idee». L’antipolitica può essere stata l’utopia di questi anni? «Non so se un’utopia si possa sviluppare anti qualcosa. Penso piuttosto che la spinta sia verso, e non contro». Questo, dopo Il giovane favoloso, è il secondo film a cui collabora con suo marito. «L’ho fatto, in modo più marginale, anche per Noi credevamo. Allora facevo ancora la storica dell’arte a Firenze e così mi sono occupata solo della ricerca musicale e di quella iconografica. Per capire, per esempio, che tipo di luce fa una lampada a olio, o come esplode la polvere da sparo». È necessario essere così precisi? «Se fai una ricostruzione sì, e poi comunque ci divertiva esserlo». Vi siete conosciuti per quel progetto? «Ci conosciamo da tantissimo tempo, abbiamo sempre avuto molti amici in comune e ci piacevamo anche. Poi, un giorno, ci siamo trovati ed era il momento giusto. Ci siamo sposati nel 2010». Di chi è stata l’idea di lavorare insieme alle sceneggiature? «Ci siamo detti: proviamo, se va male interrompiamo la cosa. Avevamo voglia e anche un po’ di paura, ma alla fine è andata bene. Io in quanto storica sono abituata a fare ricerche, ho il metodo. Abbiamo iniziato davvero con Leopardi, che era un amore comune». Gli propone mai soggetti che non gli piacciono? «Sì, e alcuni che a me piacciono, non glieli propongo nemmeno. Mario si entusiasma per certe cose e per altre no. Un po’ ho capito cosa fa per lui, ma il meccanismo è comunque misterioso». È meglio scrivere di fantasia o ricostruire il passato? «Ricostruire è quello che sono abituata a fare, inventare è un bell’esercizio, anche per il carattere: bisogna lasciarsi andare». Nella vostra collaborazione è più utile la sintonia o la dialettica? «Entrambe, ma la sintonia di fondo decide tutto. Appassionarsi alle stesse cose è fondamentale. Poi sulle cose si possono avere sguardi diversi e i nostri lo sono, non fosse altro perché io sono una donna e lui un uomo». Dicono che lei sia la musa di suo marito. Le piace quest’idea? «La musa me la immagino come una cosa bellissima, astratta e assente che io non sono. Credo piuttosto che vivere una relazione d’amore felice, in cui si amano le stesse cose, aiuti perché non si crea una frattura e l’amore non ti porta da un’altra parte». State già lavorando a un nuovo film? «C’è un tempo lungo in cui il film lo devi accompagnare, lasciare andare, guardarlo camminare con le sue gambe. Manca ancora del tempo a quel momento, ma questa volta stiamo già pensando a una cosa nuova». Potreste scrivere del presente questa volta. «Non è un bel presente da raccontare, e nemmeno da vivere. Però immaginare una prospettiva, uno slancio vitale, magari serve».