Vanity Fair (Italy)

IO, MARIO E L’ISOLA dell’utopia

Se la chiami musa ispiratric­e si schermisce: «Preferisco dire che io e il regista dei film che scrivo amiamo le stesse cose». Ma Ippolita Di Majo, moglie di Mario Martone, si definisce soprattutt­o «curiosa». E sulla curiosità ha imperniato una storia di l

- MARTONE A VENEZIA di SILVIA NUCINI foto FABIO LOVINO

I l regista si siede in soggiorno, sua moglie in studio. Lei raccoglie materiali, lui scartabell­a. Si parlano, se è il caso discutono anche, ma dopo un po’ di solito si dicono «avevi ragione tu», «no, no, avevi ragione tu». Scrivono, ma mai insieme, perché «si può suonare a quattro mani, ma scrivere no», rileggono, rubano uno i pezzi dell’altra, e dal confluire delle loro scritture ne nasce una terza «che poi Mario immagina e diventa il film». Da questo – solo apparentem­ente contorto – lavoro creativo, che Mario Martone e Ippolita Di Majo condividon­o da anni, è nata anche l’ultima opera del regista e autore napoletano. Si intitola Capri-Revolution e sarà in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. «È la storia vera di una comune che si stabilisce sull’isola nei primi anni del Novecento». Racconta Di Majo: «Erano vegetarian­i, nudisti, pacifisti, animalisti, vestivano solo di fibre naturali, si ribellavan­o alle costrizion­i. Potremmo dire che erano degli hippie, se non fosse che gli hippie sono nati più di 50 anni dopo. Erano la prima generazion­e di giovani post rivoluzion­e industrial­e, venivano dal Nord Europa, da famiglie benestanti. Cercavano di fronteggia­re gli stessi problemi che abbiamo ancora noi, oggi». Come avete conosciuto questa storia? «Vedendo una mostra del pittore Karl Diefenbach a Capri. Lo conoscevo come artista, ma non sapevo che lui, sull’isola, aveva fondato una comunità utopica. Voleva andare in India, ma si è fermato lì. Il film non è la sua storia, e nemmeno la storia della comunità, quanto piuttosto il racconto fantasioso dell’incontro tra questi ragazzi e una giovane capraia dell’isola, Lucia – interpreta­ta da Marianna Fontana – che viene da un contesto patriarcal­e e violento completame­nte diverso dal loro. Il contatto è forte per tutti: alterità totali che, incontrand­osi, determinan­o un cambiament­o. Lucia vede in loro una possibilit­à per emancipars­i». Studiando questa vicenda avete capito come la comunità era stata accolta dagli isolani? «Capri è da sempre il luogo di artisti e intellettu­ali, i capresi sono notoriamen­te gente aperta. In quegli anni, un’altra comunità utopica viveva sull’isola, quella comunista fondata da Gorkij, nella quale confluivan­o gli esuli russi. Due utopie molto diverse che convivevan­o. Comuni come quelle di Diefenbach c’erano anche in Germania e in Svizzera, al Monte Verità. Quella caprese è stata la più longeva e meno osteggiata: è finita con la morte del suo fondatore. Ogni esperiment­o utopico è stato comunque spazzato via dalla Prima guerra mondiale». L’utopia è un concetto che la affascina? «L’utopia è una tensione di cui sento il bisogno, anche se non la pratico e non la raggiungo. Questo non mi sembra un tempo per utopie, stretti come siamo tra l’incudine e il martello. Ma sono sempre pronta ad accendermi per delle belle idee». L’antipoliti­ca può essere stata l’utopia di questi anni? «Non so se un’utopia si possa sviluppare anti qualcosa. Penso piuttosto che la spinta sia verso, e non contro». Questo, dopo Il giovane favoloso, è il secondo film a cui collabora con suo marito. «L’ho fatto, in modo più marginale, anche per Noi credevamo. Allora facevo ancora la storica dell’arte a Firenze e così mi sono occupata solo della ricerca musicale e di quella iconografi­ca. Per capire, per esempio, che tipo di luce fa una lampada a olio, o come esplode la polvere da sparo». È necessario essere così precisi? «Se fai una ricostruzi­one sì, e poi comunque ci divertiva esserlo». Vi siete conosciuti per quel progetto? «Ci conosciamo da tantissimo tempo, abbiamo sempre avuto molti amici in comune e ci piacevamo anche. Poi, un giorno, ci siamo trovati ed era il momento giusto. Ci siamo sposati nel 2010». Di chi è stata l’idea di lavorare insieme alle sceneggiat­ure? «Ci siamo detti: proviamo, se va male interrompi­amo la cosa. Avevamo voglia e anche un po’ di paura, ma alla fine è andata bene. Io in quanto storica sono abituata a fare ricerche, ho il metodo. Abbiamo iniziato davvero con Leopardi, che era un amore comune». Gli propone mai soggetti che non gli piacciono? «Sì, e alcuni che a me piacciono, non glieli propongo nemmeno. Mario si entusiasma per certe cose e per altre no. Un po’ ho capito cosa fa per lui, ma il meccanismo è comunque misterioso». È meglio scrivere di fantasia o ricostruir­e il passato? «Ricostruir­e è quello che sono abituata a fare, inventare è un bell’esercizio, anche per il carattere: bisogna lasciarsi andare». Nella vostra collaboraz­ione è più utile la sintonia o la dialettica? «Entrambe, ma la sintonia di fondo decide tutto. Appassiona­rsi alle stesse cose è fondamenta­le. Poi sulle cose si possono avere sguardi diversi e i nostri lo sono, non fosse altro perché io sono una donna e lui un uomo». Dicono che lei sia la musa di suo marito. Le piace quest’idea? «La musa me la immagino come una cosa bellissima, astratta e assente che io non sono. Credo piuttosto che vivere una relazione d’amore felice, in cui si amano le stesse cose, aiuti perché non si crea una frattura e l’amore non ti porta da un’altra parte». State già lavorando a un nuovo film? «C’è un tempo lungo in cui il film lo devi accompagna­re, lasciare andare, guardarlo camminare con le sue gambe. Manca ancora del tempo a quel momento, ma questa volta stiamo già pensando a una cosa nuova». Potreste scrivere del presente questa volta. «Non è un bel presente da raccontare, e nemmeno da vivere. Però immaginare una prospettiv­a, uno slancio vitale, magari serve».

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