AL CONFINE DELL’INFERNO
La lezione veramente indimenticabile del cinema che ho amato da ragazzo consisteva nella capacità di coniugare l’intrattenimento alla riflessione sul mondo che ti circonda, lo spettacolo alla tensione sociale, la grande scena che ti toglie il fiato all’affresco sul quadro che dipingeva a tinte impressionistiche il periodo storico in cui si svolgeva l’azione. Non era forse un manifesto di un’intenzione simile, un’intenzione che definirei politica senza timore di smentita, quel capolavoro che risponde al nome di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri? L’intento politico non era smaccato, ma ogni frammento ti faceva pensare al contesto dell’attualità del tempo, alla sua contemporaneità. In tutti i lavori che ho affrontato in questi anni – da Romanzo criminale a Gomorra, da Acab a Suburra, a Zero, zero, zero – ho cercato di non dimenticare mai quella lezione e ho provato a tenerla a mente anche mentre preparavo e poi giravo Soldado. Un film che racconta la frontiera e che più che un lavoro sull’immigrazione, è un’opera sui confini. Su quelli reali, concreti, magari delimitati da un check-point o da un soldato preoccupato di preservare un’illusoria verginità territoriale e su quelli metafisici, quelli interiori, quelli che pretendono dai protagonisti uno scarto morale, un salto di status, l’atavica scelta tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male. Altri confini labili, confusi, non sempre visibili a occhio nudo e molto interessanti da esplorare – nei miei film l’ho sempre fatto – nelle loro pieghe, nei loro dilemmi, nei problemi che dirigersi in una direzione o nell’altra pone ogni giorno a ognuno di noi. Soldado parla di questo e parla anche delle differenze. Differenze culturali e differenze di lingua che spesso sfociano nell’incomunicabilità. All’interno del racconto c’è una scena in cui un kamikaze minaccia di far esplodere un supermercato. Una giovane mamma con un bambino in braccio prova a comunicare con lui nella speranza di dissuaderlo. Lei parla in inglese, lui recita una preghiera in arabo e così nonostante il tentativo di dialogare, i due non si ascoltano. Soldado è costellato da questi momenti. Momenti in cui si svolge un’azione concitata e istanti che al tempo stesso sono simboli. Manifesti di incomprensione reciproca. Barriere invalicabili. Confini che rimarranno tali. E che non sono uguali per tutti perché uguali e paritarie non sono le condizioni da un lato all’altro della barriera. La prima volta che lavorando a Soldado ho attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico ho sbagliato strada. Ero con due collaboratori e il progetto, quello di osservare da fuori le enormi palizzate che si ergono in corrispondenza del confine, era naufragato per un’uscita mancata e per una distrazione. Così ci siamo ritrovati in fila verso il Messico, senza possibilità di tornare indietro, e ci siamo resi conto che per fare il viaggio dall’America, la fila era quasi inesistente. Niente a che vedere con le code lunghissime incontrate al ritorno. Centinaia di macchine in fila sottoposte a un controllo scrupolosissimo. Quando è arrivato il nostro turno, non c’era uno di noi che praticamente avesse un documento valido. Il poliziotto ci ha guardato in faccia, ha stabilito a spanne che non davamo l’idea di tre persone che un giorno avrebbero potuto soggiornare illegalmente negli Usa e ci ha lasciato passare. Compiendo una discriminazione opposta e uguale a quella che tocca ai messicani. Questo episodio minore mi ha dato lo spunto per immaginare un’ansa di racconto all’interno di Soldado, ovvero la storia di due ragazzini borghesi di passaporto statunitense che vivono in una piccola cittadina di confine che sorge proprio sulla frontiera. I due fanno i «coyote». Utilizzando percorsi nascosti alla vista dei poliziotti, in cambio di denaro, aiutano i migranti ad attraversare fisicamente la frontiera. Diventano a loro volta criminali. Una condizione che nel luogo in cui ho deciso di ambientare Soldado, un luogo in cui la gente sogna di emigrare senza alcuna certezza di incontrare un futuro migliore, è un’opzione più tangibile di quanto non accada altrove. Un’opzione che spaventa perché il reale è più orribile di qualsiasi possibile fantasia. Lavorando al film ho incontrato moltissime persone sia da una parte che dall’altra del confine. I racconti di quelli che hanno attraversato l’inferno del deserto con il Caronte di turno mi sono rimasti addosso. Mettevano paura. Erano tratti direttamente dalla realtà.