Vanity Fair (Italy)

SULLA MIA PELLE

- di ENRICA BROCARDO

Ha sfilato per i marchi più prestigios­i, conosciuto miti come Andy Warhol e Valentino, e visto nascere luoghi cult come lo Studio 54. La leggendari­a modella Pat Cleveland, in Italia per lavoro, fa il punto sulla propria vita e sull’amore inatteso per le imperfezio­ni

Il fantasma di Caruso venne in camera mia una notte, la porta si aprì da sola, la luce si accese ed era lì». Pat Cleveland è seduta nella hall del Grand Hotel et de Milan dove ha alloggiato tante volte. Una delle prime modelle di colore a conquistar­e le copertine delle riviste di moda, a 68 anni, con la sua vocina infantile e il suo corpo lungo e leggero, ha attraversa­to tre generazion­i di moda e di arte. «Sono venuta qui la prima volta all’inizio degli anni Settanta. Volevo imparare l’italiano perché le uniche parole che sapevo erano: “Ti amo”. Cosa che mi ha messo spesso nei guai, anche se», fa una risata sottile, «non posso dire di essere mai rimasta delusa». A Milano è tornata per la Settimana della moda che si è appena conclusa come ambassador del brand di pelletteri­a Delvaux. Prende in mano una pochette, la apre: «Vede questo piccolo marchio? Queste borse sono nate per la casa reale belga, averne una equivale a un invito per il tè a palazzo». Mentre rievoca spezzoni, impression­i della sua vita, la cronologia va a pezzi, ma c’è una logica nel disordine e costanti che punteggian­o il flusso dei ricordi. Il ballo, per esempio. È ballando in un club che ha conosciuto Andy Warhol, è sulla pista dello Studio 54 che ha incontrato quelli che lei definisce «gli dei e le dee della musica, dell’arte e della moda». Invece di camminare sulle passerelle, Pat Cleveland danzava. Muoversi a ritmo di musica fa parte della sua stessa essenza. «Fuori dall’hotel, all’epoca, c’era una Rolls Royce parcheggia­ta. Gian Paolo Barbieri mi chiamò e mi disse: “Fatti accompagna­re in studio con quella”. Ricordo che la macchina saltellava sul pavé e io pensavo: sono a Milano per davvero!». Due giorni dopo, la telefonata che l’avrebbe portata a Parigi dove, nel 1971, diventò una delle modelle favorite di Karl Lagerfeld. «Antonio Lopez mi chiamò: “Vieni qui, ho bisogno che posi per me”. Ma ho così tanti ricordi dell’Italia. Valentino era divertente perché sapeva ballare il tip tap. Danzavamo insieme nella sua casa piena di cose meraviglio­se, le opere d’arte, i pavoni. In New Jersey ne ho 22, di tutte le età, liberi in giardino. Quando dipingo, entrano in casa, vanno in cucina a mangiare le crocchette del cane e del gatto. Non è difficile prendersi cura dei pavoni». Figlia di una pittrice, Lady Bird Cleveland, e di un musicista jazz norvegese che non ha mai conosciuto, da ragazza voleva diventare una stilista di moda. «Studiavo arte e design nella stessa scuola di Donna Jordan e Steven Meisel. È con loro che, a 17 anni, ho conosciuto Andy Warhol. Eravamo andati a ballare nel Village e Donna mi disse: “Vieni a conoscere questo film maker”. All’epoca nessuno voleva apparire nei suoi film perché Andy usava solo personaggi bizzarri presi dalla strada, drogati, travestiti. Ricordo, anni dopo, una serata con lui, Antonio Lopez e Karl Lagerfeld a Parigi, andammo in un bordello a cenare. Amavano fare questo genere di cose». Lo Studio 54, racconta, lo ha visto nascere. «A New York c’era questo club chiamato Hurrah. Passare la selezione all’ingresso era difficilis­simo e il mio amico Steve Rubell veniva quasi sempre respinto. Una sera mi dice: “Pat, voglio aprire un locale e far fallire questo posto”. Mi invitò a vedere un gigantesco studio televisivo che aveva trovato, mi disse: “Invita i tuoi amici”. E così una sera che Halston mi aveva chiesto di andare fuori a cena, gli proposi: “Perché, invece, non andiamo a ballare nel locale del mio amico?”. È stato lui che ha cominciato a portare tutti i grandi artisti, le rockstar. Il bello dello Studio 54 era che a mezzanotte la tenda che separava i vip veniva aperta e si ballava tutti insieme. Una notte – era il compleanno di Steve – mi sono ritrovata a cantargli Happy Birthday con Stevie Wonder e i Police. A un certo punto eravamo sdraiati l’uno sull’altro, come all’asilo quando è il momento del pisolino. Quando lavori tanto, l’unico modo di conoscere gente nuova è alle feste. Ryan O’Neal, Michael Douglas, Warren Beatty… Li ho conosciuti tutti ai party. A volte, certi incontri sembrano decisi in paradiso». Poi torna con la memoria a un’altra festa, in Russia, al Cremlino. «A un certo punto saliamo ai piani superiori, attraversi­amo una serie di porte bassissime e arriviamo in una sala enorme piena di ragazze che ballano e di tipi vestiti in modo serioso. Sto per riempirmi un piatto di caviale, quando una donna mi si avvicina: “Venga con me”. E mi accompagna in una stanza dove mi trovo di fronte a un uomo alto, con la faccia paonazza. Non avevo idea di chi fosse. Lui mi dice: “Ti ho vista sul palco, sei molto brava”, e se ne va. Ho scoperto dopo che era Boris Eltsin». La sua vita non è stata tutta una favola, ammette. «Mi sono successe cose molto brutte, ho incontrato persone che mi hanno fatto del male. Quando ho iniziato a lavorare come modella, nell’America del Sud il Ku Klux Klan uccideva i neri, le donne venivano stuprate. Ma parlare di questo genere di cose non ti rafforza. A farlo, semmai, è la poesia. Sono cresciuta in un ambiente di artisti, trovo sempre qualcosa che mi rende felice, un luogo dove creare qualcosa di bello». La moda, dice, non solo è la sua vita, ma ha avuto e ha un ruolo importante: «Ha fatto conoscere a chiunque la diversità. Se hai un’imperfezio­ne, mettila in evidenza. Sopra questa piccola cicatrice sulla guancia ho fatto un puntino con la matita così si vede meglio. E su queste linee qui intorno agli occhi, ho messo un po’ di olio per il viso. Mi sono guardata: eccole le mie belle rughettine. Sono curiosa del futuro, di vedere che cosa succederà nel mondo. Sono ingorda di vita. Un uccellino che mette la testa fuori dal nido per guardarsi intorno sperando di trovare qualche buon vermetto da mangiare. Quella sono io».

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