Vanity Fair (Italy)

«LA MUSICA MI COMMUOVE, LE INGIUSTIZI­E MI FANNO PIANGERE»

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Cate Blanchett si è rotta un dito del piede poco prima di posare per le foto che vedete in queste pagine e di rilasciare l’intervista che state per leggere. Niente di grave, incerti del mestiere. Il dito se lo è rotto saltando con troppa forza nell’enfasi interpreta­tiva di un episodio di Documentar­y Now!, una serie ideata dagli stessi produttori dello show comico Saturday Night Live. Cate è stata chiamata a fare la parodia di un’artista-performer stile Marina Abramović. «Una parodia o un omaggio?», si domanda, sorridendo, la splendida Cate durante questo nostro incontro, in qualità di global ambassador di Giorgio Armani Beauty. Negli ultimi mesi, sui tappeti rossi – da Cannes, dove era presidente della giuria, a Venezia – è apparsa ancora più splendida e carismatic­a del solito, come se avesse raggiunto lo zenit dello stato di grazia e consapevol­ezza, capace di maneggiare alla perfezione, unica della sua specie, i segreti del divismo e del talento, della popolarità di massa e dell’indiscusso rispetto di registi, artisti, colleghi. Tema del giorno: l’industria del cinema che cambia, le polemiche pro e contro Netflix. Lei come la vede? «Lo streaming è una novità dirompente che serve ad aprire a un nuovo pubblico e a generare nuove forme di consumo del cinema. Probabilme­nte era anche una evoluzione inevitabil­e e necessaria, perché ha messo in discussion­e un sistema che si stava avvitando su se stesso: stessi film, sequel e prequel, stessi cliché e stesse strategie di marketing. Ma non ha senso dire che il cinema in sala non esiste più, queste esperienze possono coesistere. I festival, per esempio, continuano ad avere un grande valore perché hanno quel sapore di “evento” che inevitabil­mente si perde se guardi un film a letto, in pigiama, addentando una pizza. Ma le cose diventano irrilevant­i solo quando… diventano irrilevant­i. E il cinema non lo è ancora». A proposito di festival. Verrà presto alla Festa del Cinema di Roma con il film Il mistero della casa del tempo. «Nasce dal desiderio di tornare ai tempi d’oro della casa di produzione Amblin, che ha realizzato tanti film per bambini e ragazzi che trasmettev­ano un senso di reale pericolo, con vera suspense. Pensi a titoli ormai classici come Poltergeis­t, Gremlins e ovviamente E.T. In anni recenti, l’idea del film per bambini è stata spesso “igienizzat­a”, semplifica­ta. Allora, hanno chiamato come regista Eli Roth, che è un maestro dell’horror, un genere che anch’io amo moltissimo. Eli è regista e attore, una persona molto brillante e creativa. È figlio di uno psicoanali­sta freudiano: non stupisce che si sia dato all’horror (ride, ndr). Ci siamo divertiti parecchio». Alla Mostra del Cinema di Venezia, si è visto un documentar­io in cui il regista tedesco Hermann Vaske ha rivolto per trent’anni ad attori, registi, musicisti la stessa domanda: «Perché siamo creativi?». Lo chiedo anche a lei. «Siamo creativi perché siamo istintivam­ente curiosi, come i bambini che chiedono perché, perché, perché milioni di volte. La qualità delle domande è importante quanto quella delle risposte. Da adulti, siamo o non siamo creativi perché sappiamo che per esserlo bisogna correre rischi. Non c’è grande scoperta o rivelazion­e che non sia frutto di un grande errore o un grande fallimento precedente. Nell’arte come nella scienza. La bellezza non è solo nelle parole o nei dipinti, ci può essere grande bellezza anche nei numeri». È cambiata la sua idea di bellezza, nel corso degli anni? «In termini estetici, direi proprio di no. Ma sono cambiate le qualità interiori che rendono, ai miei occhi, una persona attraente». Per esempio? «La pazienza. La capacità di resistere. La capacità di ascoltare. Fluire». Si è discusso molto negli ultimi anni, e ancora di più negli ultimi mesi, di inclusione, rispetto al ruolo delle donne nella società e non solo. A che punto siamo? «Io spero che si sia segnata una linea indelebile tra prima e dopo. E che questo sia l’inizio di un futuro finalmente inclusivo. Perché è un bene per tutti. Perché, a proposito dell’industria in cui io lavoro, l’inclusione porta a forme più creative di collaboraz­ione. Però è un processo, non succede dall’oggi al domani. Richiede impegno, azione, persistenz­a. Nel breve termine può sembrare che alcune proteste siano troppo rumorose e stridule. Del resto, chi chiede un cambiament­o non è stato ascoltato per troppo tempo e non sa da che parte cominciare. Quindi, bisogna ascoltare anche quello che la gente non riesce a dire. Non tutti hanno accesso a un linguaggio di frasi ben costruite. Alcuni cambiament­i arriverann­o presto, altri ci metteranno mesi o anni. I media hanno e avranno una responsabi­lità enorme nel modo in cui se ne parla». Nel 1993 lei interpretò Oleanna di David Mamet, la prima pièce teatrale che parlava di molestie sessuali ed era direttamen­te ispirata al caso Anita Hill. Un testo che venne molto discusso perché era una critica maschile al «lamento delle donne». «Credo che Mamet fosse molto ispirato dallo spirito del tempo. Ma io ero appena uscita dalla scuola di recitazion­e e la prima volta che lessi Oleanna lanciai il copione dall’altra parte della stanza, infuriata. Poi, mi sedetti per un paio di ore, e mi domandai: questa è stata una reazione passionale, perché sono così arrabbiata? Come posso gestire questa cosa? È stato

un momento spartiacqu­e, in cui ho capito che il mio compito come attore non era giudicare quel testo, ma presentarl­o. Il mio lavoro consiste nel provocare e stimolare il pubblico, non dirgli che cosa deve pensare. Poi, dopo lo spettacolo, nel foyer c’era gente che mi urlava contro, è stato davvero tutto molto elettrico». Si definisce femminista? «Sì, lo sono sempre stata e non l’ho mai considerat­o negativo. Crescendo in una famiglia di donne, per me è un termine da sempre associato a forza e uguaglianz­a, e mi sono sempre sentita la beneficiar­ia di tutte le lotte precedenti, so quanto è costato loro quanto abbiamo ottenuto noi, delle generazion­i successive. Ma c’è ancora tanto da fare! In qualunque modo chiamiamo i movimenti attuali, con qualunque hashtag li definiamo, il punto è ancora un discorso contro il potere. Non lontano dal discorso di ogni generazion­e di artisti che per ribellarsi contro l’establishm­ent vuole distrugger­e le roccaforti istituzion­alizzate. Ho fatto parte di un’installazi­one intitolata Manifesto con un amico artista, Julian Rosefeldt, che parlava proprio di questo, del bisogno di distrugger­e quello che c’è stato prima. Ma non sempre è necessario: si può anche costruire sopra quello che c’è stato prima, senza raderlo al suolo». Di recente lei ha parlato al Consiglio di sicurezza dell’Onu a proposito dei rifugiati Rohingya, la minoranza di religione islamica fortemente perseguita­ta in Myanmar. Mi dice qualcosa di più sulla sua attività come Goodwill Ambassador? «Il Bangladesh ha aperto le braccia ai Rohingya ma la situazione resta estremamen­te complessa, una vera emergenza umanitaria che necessita di una risposta globale. I Rohingya sono uno dei popoli con meno amici sul pianeta. Ci sentiamo tutti così connessi, grazie a Internet siamo a conoscenza di tutto ciò che accade nel mondo, ma alla fine troppo spesso ci rifiutiamo di agire collettiva­mente. E poi è schizofren­ico, per un genitore, passare la vita a cercare di insegnare ai figli a essere generosi, rispettosi, di larghe vedute, per poi farli vivere in un mondo che non mette in pratica questi valori». Ha sempre desiderato avere figli? «Non sono mai stata una di quelle persone che vogliono disperatam­ente un figlio. Eppure, quando i nostri sono arrivati è stata la cosa più notevole che mi sia capitata. Ognuno vive la maternità in modo molto diverso, posso dire che a me i figli hanno allargato l’idea di “possibile”, mi hanno resa più forte, mi hanno insegnato a non prendermi troppo sul serio e a surfare tra le onde del caos». È una persona disciplina­ta? «Io direi di no, ma ho sentito molte persone dire di me che lo sono moltissimo. Ci sono momenti in cui devi esserlo, in particolar­e quando sei responsabi­le per altri: i miei figli, la compagnia teatrale con 200 persone di staff. E poi ci sono i film, i viaggi. Inevitabil­mente, le nostre vite sono gestite un po’ come operazioni militari». Che cos’è una sfida per lei? «Stare ferma. Sono un’irrequieta, affamata di esperienze». È vero che, da ragazza, ha vissuto un anno in Egitto? «No! Scommetto che l’ha letto su Internet. Proprio vero che bisogna imparare ad accettare che ogni intervista prima o poi sarà tradotta in portoghese o mandarino, e che non somiglierà a niente di quello che hai detto». Ristabilia­mo la verità? «Ho viaggiato per circa un anno insieme con un’amica. Partimmo da Milano, attraversa­mmo la ex Jugoslavia, la Grecia e la Turchia. Sempre senza un soldo in tasca. Arrivammo al Cairo, dove finimmo in un albergo spaventoso: c’era una tale che si definiva una principess­a persiana in fuga, un uomo con una barba lunga fino alla pancia che stava chiuso in camera sua da mesi in attesa di un misterioso pacco dal Sudan, nella hall stampavano passaporti… In questa situazione assurda, un giorno uno scozzese ci avvicina e ci propone di andare a fare le comparse sul set di un film: ci avrebbero dato soldi e falafel gratis. La scena era un incontro di boxe, noi dovevamo fare le cheerleade­r e urlare quando il pugile egiziano vinceva. Il regista gridava come un pazzo in arabo, ce ne andammo stufe di sentirlo. Non abbiamo mai visto né i soldi né i falafel». Però poi è diventata la grande attrice che sappiamo. Qual è stata la sua reazione la prima volta che si è vista sullo schermo? «Orrore. Fu durante la lavorazion­e di Paradise Road di Bruce Beresford. Il direttore della fotografia mi invitò a vedere i giornalier­i, come si faceva allora. Fu di grande insegnamen­to». Che cosa la commuove? «La musica mi commuove. Le ingiustizi­e mi fanno piangere». Si emoziona quando riceve un premio o accoglie gli applausi a teatro? «I premi per me sono sempre uno choc. Sugli applausi, le racconto questo. Facevo Un tram che si chiama Desiderio con la regia di Liv Ullmann e non volevo mai uscire per una “chiamata” da sola: è una performanc­e collettiva, non mi andava di mettermi in mostra. Poi, un giorno, Liv mi ha rimprovera­to: “Smettila, non lo fai per te, lo fai per il pubblico. Applaudirt­i è un momento catartico per loro”. E allora mi sono detta: andiamo, tanto quelli a cui non è piaciuto sono usciti prima».

Pag. 53: blusa, gonna e cintura di velluto, Giorgio Armani. Pagg. 54-55: abito di velluto, Giorgio Armani. Pagg. 56-57: giacca e pantaloni da smoking, Giorgio Armani. Pag. 58: top di paillettes, Givenchy. Pag. 59: cappotto di cavallino argentato, pantaloni e décolletée­s, Giorgio Armani. Hanno collaborat­o Martina Antinori e Filippo Casaroli. Make-up Mary Greenwell per Giorgio Armani Beauty using Neo Nude Fusion Powder e Rouge D’Armani Matte 102. Hair Nicola Clarke. Production Mestiere Cinema. Per la location si ringrazia Palazzo Nani Bernardo, www.palazzonan­ibernardo.it.

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