Vanity Fair (Italy)

Perché il gioco «spara o muori» ha conquistat­o il mondo

Si «sbarca» in 100 su un’isola e vince l’unico sopravviss­uto: Fortnite coinvolge milioni di persone e frutta ai suoi creatori 200 milioni di dollari al mese. Fenomeno culturale o sciagura per il cervello?

- di DANNY FORTSON

Ahari Norfleet è qui, ma non del tutto. «Scusa, qual era la domanda?». L’undicenne, con le dita che pestano i tasti e la bocca leggerment­e aperta, sembra quasi in trance. Come milioni di persone in tutto il mondo, in ogni momento, è immerso in Fortnite, il gioco che tiene in scacco l’intero pianeta. Gli chiedo che cosa ci sia di così bello nel videogioco. «Mi piace Fortnite perché... Ahhhhhhhhh! Mi ha ucciso!», urla. «Ehm... cosa?». È un venerdì sera a Oakland, California. Norfleet e una ventina di altri bambini – più alcuni adulti un po’ imbarazzat­i – sono rinchiusi nell’Esports Arena, uno spazio industrial­e buio e spartano, dominato da file di computer. I bassi di una musica heavy martellano in sottofondo. Nonostante Fortnite sia vietato ai minori di 12 anni, alcuni dei bambini presenti ne avranno sì e no 8: sono stati lasciati qui dai genitori che sono andati a cena sul lungomare dietro l’angolo. Spiega Jesse Dieb, addetto alla reception. «I genitori dicono: “È venerdì sera, abbiamo bisogno di un drink!”. E possono star certi che i loro bambini da qui non si muovono: Fortnite è meglio di una babysitter». Il suo nome completo è Fortnite: Battle Royale ed è il gioco «spara o muori» che, dopo il lancio, in un solo anno è diventato un fenomeno culturale e finanziari­o o, secondo un altro punto di vista, una sciagura per il cervello di diverse generazion­i. Il gioco consiste nel far sbarcare 100 giocatori su un’isola e lasciarli lì a costruire fortini, andare alla ricerca di provviste e combattere fino alla morte. L’ultimo sopravviss­uto vince. Per chi ha figli – o parecchio tempo libero – il gioco non ha bisogno di presentazi­oni. È in grado di incollare a schermi grandi o piccoli giovani

Noble Mennen, 12 anni, vuole diventare giocatore profession­ista di Fortnite. Suo padre Nick gli paga le «lezioni private».

L’Organizzaz­ione Mondiale della Sanità ha riconosciu­to il «disturbo da gioco» come malattia

e meno giovani e di distrugger­e un numero sempre crescente di relazioni sociali. In più di 200 richieste di divorzio, presentate da gennaio a oggi sulla piattaform­a britannica Divorce Online, è stata citata la «dipendenza da Fortnite» come motivo di separazion­e. Nell’ultimo anno, più di 125 milioni di persone in tutto il mondo hanno giocato a Fortnite. L’azienda che lo produce, la Epic Games (Cary, North Carolina), sta guadagnand­o 200 milioni di dollari al mese. Non male, consideran­do che il gioco è gratuito. Uno dei top player, un 27enne americano con i capelli blu di nome Tyler Blevins, detto Ninja, riesce a guadagnare più o meno 500mila dollari al mese dagli sponsor e dagli iscritti che lo guardano giocare online. Fortnite è un fenomeno di cultura popolare; anche i rapper, gli attori e i calciatori, come il giovane campione Dele Alli del Tottenham, ci giocano. Una scuola del Devon ha vietato la flossing dance (il ballo che si fa muovendo le braccia davanti e dietro al corpo ancheggian­do, ndr) perché, spiega il preside: «Fortnite si basa sull’uccidere in massa degli esseri umani e festeggiar­e con questa danza». In America, alcune scuole hanno iniziato a sospendere i bambini sorpresi a giocarci sul telefono. Per comprender­e questo fenomeno bisogna tornare indietro di 27 anni, in un seminterra­to a Potomac, nel Maryland.

Tim Sweeney è, per sua stessa ammissione, un «tipo sveglio, ma strano»: passa il suo tempo a smontare tosaerba e costruire go-kart con i pezzi di ricambio. All’età di 11 anni inizia a programmar­e e da quel momento fino ai 15 anni stima di aver passato più di 10mila ore ad armeggiare con il suo Apple II. Nel 1991 frequenta l’Università del Maryland e nel frattempo lancia il suo primo gioco per computer, ZZT. Sweeney riceve tre o quattro ordini al giorno per un valore di circa 100 dollari l’uno. Sweeney, oggi 47 anni, tempo fa dichiarò che è stato proprio grazie a quei primi ordini che gli si accese la lampadina: ha capito che poteva fare dei videogioch­i la sua profession­e. Lo fa e chiama il suo impero nascente Epic MegaGames. Il primo colpo di genio di Sweeney arriva nel 1994, quando crea Unreal, un gioco fantasy. Per svilupparl­o inventa Unreal Engine, una piattaform­a grafica pensata per poter realizzare anche altri giochi. I suoi concorrent­i iniziano a chiedere di poterla usare, e lui la concede in licenza. Questo passo è fondamenta­le per due motivi: Sweeney può iniziare a riscuotere i diritti e, come proprietar­io della piattaform­a su cui sono costruiti i giochi, riesce ad avere una visione privilegia­ta di cosa va e cosa no. La Epic, e Sweeney, diventano figure leggendari­e nel settore del gaming. Nel 2012, il conglomera­to tecnologic­o cinese Tencent paga 330 milioni di dollari per una quota del 48% dell’azienda. Sweeney passa così da ricco a straricco e può assecondar­e il suo amore per le Ferrari e le auto d’epoca, e per gli spazi all’aria aperta. Nel corso degli anni acquista 36mila acri di terreni di montagna, per lo più con fini di salvaguard­ia, e diventa uno dei più grandi proprietar­i terrieri della Carolina del Nord. I videogame gratuiti come League of Legends hanno già dimostrato che si può comunque fare soldi anche senza farli pagare. Il concetto è semplice: offrire il gioco gratuitame­nte per attrarre un’ampia base di utenti e poi vendere abilità o poteri all’interno del gioco. Sweeney però prende un paio di decisioni che rendono Fortnite unico e diverso dagli altri. Da un lato, vuole che il gioco si rivolga sia ai ragazzi che agli adulti, abili o meno. Il gioco non consiste sempliceme­nte nel far fuori gli avversari con una scarica di proiettili: l’abilità nel costruire le difese aggiunge una componente di strategia che lo rende, almeno in parte, più un gioco di intelligen­za. Jim Drewry, un veterano del settore con 14 anni di esperienza che attualment­e gestisce la Gamer Sensei, piattaform­a che mette in contatto allenatori e giocatori per 15 videogioch­i, spiega: «È la parte di costruzion­e che rende Fortnite unico. Lasciare ai giocatori la libertà di risolvere i problemi in modo creativo è una cosa relativame­nte rara». I giocatori possono giocare individual­mente o lavorare in squadra, il che aggiunge una componente sociale. E il tutto mantenendo sempre un’atmosfera piacevole: «Fortnite è divertente anche quando perdi», spiega Drewry. Nella maggior parte dei giochi, pagando, si può ottenere qualche vantaggio, per esempio un potere speciale. In Fortnite si possono comprare solo cose di poco conto: skins o costumi per i personaggi, oppure emotes, cioè le espression­i emozionali, come le danze di vittoria. Fortnite, in altre parole, è un po’ socialista: non puoi comprare un vantaggio, non importa quanti soldi tu abbia. Tuttavia, in Fortnite gli extra costano parecchio. Michael Pachter, analista di Wall Street, spiega: «Di norma nei giochi le skins costano 5 dollari. Fortnite ne chiede invece 15-20». Alcune skins sono disponibil­i solo per un tempo limitato, si crea quindi un’urgenza ad accaparrar­sele che si traduce in miliardi di dollari. Dopo trent’anni a smanettare, questo è il capolavoro di Sweeney. La Epic non rende pubblici i suoi dati finanziari, ma Pachter stima che sia in grado di generare 2,4 miliardi di dollari

L’Università di Akron, in Ohio, offre borse di studio in «eSport» per abili giocatori di videogame

in un anno. E ha annunciato che l’anno prossimo destinerà 100 milioni di dollari in premi in denaro per i tornei, una cifra senza precedenti.

Come ogni ragazzo di 12 anni, Noble Mennen ha dei sogni. Il suo è giocare a Fortnite a livello profession­ale, e suo padre Nick lo appoggia al 100%. Nick paga 18 dollari l’ora per delle sessioni di coaching su Skype una o due volte alla settimana con Pixul, uno dei più noti giocatori di Fortnite. «Se questa è davvero una strada profession­ale percorribi­le, il momento per provare è adesso». Ogni giorno Noble gioca a Fortnite per due ore, che diventano quattro nei fine settimana. Metà del tempo è per divertimen­to, l’altra metà è di «allenament­o». Nick spiega: «Deve concentrar­si sulla vittoria». Noble annuisce con decisione. Il fatto che i videogioch­i offrano un vero e proprio percorso profession­ale sta diventando una realtà, anche se per pochi. Una delle prime università a offrire borse di studio in «eSport», l’Università di Akron, in Ohio, conta attualment­e 53 studenti, le cui spese scolastich­e sono coperte, anche se parzialmen­te, grazie alla loro abilità nel gioco. Con un po’ di fortuna, uno di loro potrebbe diventare come Ali Hassan, conosciuto anche come SypherPK. Il 22enne di Austin, Texas, guadagna 150mila dollari al mese giocando a Fortnite otto ore al giorno, sette giorni alla settimana. I suoi genitori volevano che il figlio, uno studente dotato, andasse all’università. Lui voleva essere un giocatore profession­ista. Sono nate delle tensioni: «Non ho avuto altra scelta se non fare le valigie e andarmene», ricorda il ragazzo. Vivendo per conto suo, Hassan tirava avanti giocando in streaming. Riusciva a pagare le bollette, ma si sentiva in una impasse. Dopo che gli iscritti al suo canale su Twitch, una piattaform­a di live streaming per il gioco, sono scesi a poche centinaia lo scorso novembre, ha pensato di lasciare. Twitch è l’influencer più potente nel mondo dei videogioch­i. È una piattaform­a che permette a chiunque di creare un canale per trasmetter­e le proprie partite live. Ogni giorno, quasi 15 milioni di persone – per lo più bambini e ragazzi – si collegano alla piattaform­a. Il tempo medio trascorso su Twitch è di 1 ora e 35 minuti. I canali sono gratuiti, ma alcuni superfan scelgono di pagare dai 5 ai 25 dollari al mese per sostenere il loro giocatore preferito. I giocatori prendono una quota del 50-70%. Twitch, che è di proprietà di Amazon, si prende il resto. Hassan ha provato Fortnite a dicembre. Se ne è innamorato e ha iniziato a giocarci come se non ci fosse un domani. «Mi alzavo ogni mattina alle 5 ed ero in streaming già alle 5.30. Non ho preso un giorno libero per sei o sette mesi». I suoi pochi iscritti su Twitch, appena qualche centinaio, sono schizzati a 17mila, più 1,5 milioni di follower, e un altro milione su YouTube. Sta intrattene­ndo accordi di sponsorizz­azione e sta per lanciare una linea di merchandis­ing. E i suoi genitori? «Adesso si sono ricreduti», dice.

Non tutti i genitori la pensano allo stesso modo. Le reazioni contro la dipendenza da Fortnite sono state immediate e violente. Cercando «Fortnite addiction» su Google escono 66 milioni di risultati, tra cui la storia di una bambina di nove anni che è dovuta andare in rehab dopo che ha iniziato a farsi la pipì addosso pur di continuare a giocare. Kirstie Allsopp, conduttric­e televisiva inglese, ha fatto scalpore a giugno quando ha ammesso di aver distrutto gli iPad dei suoi figli perché ci giocavano troppo. L’ascesa del videogame, com’era prevedibil­e, ha riacceso il dibattito sul fatto di considerar­e o meno la dipendenza da gioco come un disturbo clinico al pari dell’alcolismo o della dipendenza da eroina. Alcuni genitori sostengono che dovrebbe essere considerat­a tale. Quest’anno, infatti, l’Organizzaz­ione Mondiale della Sanità ha riconosciu­to per la prima volta il «disturbo da gioco» ufficialme­nte come una malattia. Paul Delfabbro e Daniel King, professori di psicologia all’Università di Adelaide, hanno aperto un nuovo fronte nel dibattito. I moderni videogame, sostengono, si fondano sugli stessi impulsi di base del gioco d’azzardo, specialmen­te quelli fondati sugli acquisti «predatori» all’interno del gioco, come Fortnite. Da un lato ci sono i giochi gestiti da supercompu­ter programmat­i per innescare istinti primordial­i; dall’altro, il più delle volte, ci sono giovani cervelli in via di sviluppo. «Il sistema del gioco sa più sul giocatore di quanto il giocatore possa sapere sul gioco», affermano. Ma queste preoccupaz­ioni sono l’eccezione più che la regola. Infatti, Drewry della Gamer Sensei dice di aver visto intere famiglie che giocano compulsiva­mente a Fortnite. «Abbiamo sempre avuto casi di genitori e figli che chiedono di essere allenati insieme, ma storicamen­te è stata una parte relativame­nte piccola del nostro business. Da quando abbiamo aggiunto Fortnite, questo tipo di richieste è aumentato drasticame­nte». [Traduzioni Madrelingu­a]

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Persone di ogni età si incontrano alla Esports Arena di Oakland per sessioni di Fortnite. Nell’ultimo anno, i giocatori nel mondo sono stati oltre 125 milioni.
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Il centrocamp­ista del Tottenham Dele Alli, 22 anni, fa la flossing dance dopo aver segnato un gol durante la semifinale di FA Cup poi vinta dal Manchester United lo scorso aprile. Il giocatore è un appassiona­to di Fortnite.

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