SONO STATA SULLA LUNA
Dopo due decenni nella moda e una lunga esperienza in Gucci, Frida Giannini ha cambiato vita. Ora si occupa di cose normali, «Ero come il criceto della ruota», e collabora attivamente con Save the Children
Cè voluto tempo: «Ho 46 anni e per più di metà della mia vita ho lavorato nel mondo della moda. Uscirne ha rappresentato uno choc. È un settore molto impegnativo e competitivo, una bolla che non ti dà il tempo di fermarti, di pensare, di sviluppare chissà quale filosofia sull’immediato futuro. Ha visto Il diavolo veste Prada, il film? Ecco, quel frammento di realtà soppianta la finzione. Poi a un tratto ne sei fuori e ti dici: “Va bene, hai vissuto in mezzo ai pazzi e ora, che si fa?”». Per due decenni, scalando ruoli e posizioni, prima in Fendi e poi in Gucci, fino a diventare direttore creativo di tutte le linee di prodotto dell’azienda fiorentina, Frida Giannini è stata in trincea. Oggi, nella casa piena di vinili e portacenere: «Qui si fuma», premette, non ha più divise da immaginare né mostrine da indossare. Si occupa di volontariato, collabora attivamente con Save the Children, trascorre giornate meno nevrotiche di quelle cadenzate, fino al 2015, da viaggi intercontinentali, sfilate e traguardi mascherati da diagrammi, numeri o quotazioni in Borsa. Le hanno proposto di tornare altrove, di confrontarsi nuovamente con ciò che conosce meglio. Ha sempre rifiutato. Riabituarsi alla normalità, racconta, non è stato semplice. «Avevo già deciso di prendere un anno di pausa per occuparmi di mia figlia perché ero attraversata da profondi sensi di colpa e durante un mese canonico, tra un viaggio a Rio e uno a New York, riuscivo a passare a Roma sì e no una settimana. Quando è finita la mia collaborazione con Gucci mi sono dovuta riappropriare del quartiere, della spesa, dell’asilo, persino del contratto per avere internet. Mi sono ritrovata a imparare cose di cui prima si occupavano i miei assistenti. Da un lato è stato bellissimo, dall’altro straniante. Ti rendi conto che non riesci a spostare da un computer a un telefono una rubrica e capisci, in un istante, di avere un handicap rispetto agli altri». L’uscita da Gucci, dice senza enfasi: «È stata rocambolesca, ma io mi sono sempre sentita una professionista e sono stata sempre cosciente che nella moda esistono dei cicli. Che l’azienda abbia necessità di sostituire un designer, i vertici, il management era per me assolutamente parte di un gioco di cui conoscevo le regole». Ha trasformato quello che definisce «uno tsunami affettivo» e la mancata risposta a «una lettera molto appassionata» nella possibilità «di voltare pagina e rimettere in circolo tutto. Mi sono detta: “La vita mi ha regalato quest’opportunità, prendiamola”».
Come si è avvicinata a Save the Children e all’impegno umanitario? «Già quando lavoravo nella moda aprii la strada all’idea che il mondo del lusso si occupasse di Ong. Ho sempre pensato: “Abbiamo le vetrine e grazie a dei testimonial pazzeschi possiamo dar voce a chi non ce l’ha”. Mettemmo in piedi la prima collaborazione con Unicef Usa già nel 2005. Progetti importanti a livello di comunicazione e di raccolta fondi. Andai poi in Malawi e in Mozambico e organizzammo un concerto a Londra per i diritti delle donne. Quell’esperienza che mi aveva fatto molto bene mi è tornata utile quando mi ha chiamato Save the Children». Cosa ricorda dell’approccio iniziale? «Stavo collaborando con una casa famiglia a Roma: “Non posso garantirvi la quotidianità” risposi e invece l’avventura mi ha prima appassionato e poi preso, completamente. Quel dubbio che ti coglie sempre: “Chissà questi soldi dove vanno a finire?” è stato spazzato via dall’esperienza diretta. Ho visto con i miei occhi i bilanci trasparenti e ho toccato con mano la realtà dei volontari. Una realtà straordinaria». È stata anche in Giordania. «Alla fine del viaggio in Giordania ho ripreso in mano il mio bloc-notes. Luoghi e persone mi entrano sempre dentro come disegni, prendo appunti e schizzo le storie e le situazioni. Le mie emozioni. Dare il pane con le mani in un campo alle 8 di mattina, sotto un grande tendone dove stava iniziando la distribuzione, con gli operatori di Save the Children distribuiti in due lunghe file distinte, è una cosa che non mi sono dimenticata». E cosa ricorda? «Che ogni giorno quasi 17 mila famiglie ricevono il pane fresco così. Le madri a ritirare i sacchetti trasparenti dei pani tondi morbidi e sottili, i padri e i ragazzini nell’altra fila. Sa dove si capiscono tante cose? Osservando il campo dalla collina dei serbatoi d’acqua, nel punto più alto del campo. Da lì si vede questa distesa di 5 chilometri quadrati di container. Un operatore di Save the Children mi ha spiegato che tutti quei pali e fili della rete elettrica che intrecciano il campo, fino a poco tempo fa, non c’erano. Otto anni di guerra infinita hanno spento la speranza di tornare in Siria e li hanno resi necessari, proprio come l’acquedotto che si sta costruendo ora. In questo momento sto appoggiando la campagna “Fino all’ultimo bambino” per combattere la malnutrizione infantile (si può mandare un sms solidale al numero 45533, fino al 14 novembre, ndr)». Dove si trova il colore in una vita circoscritta dai confini di un campo? «Sono stata attratta dai murales su alcuni container. Murales comparsi per la necessità di rendere più casa un posto che è sempre meno provvisorio». Cosa c’è sui murales? «Sono pieni di colori, paesaggi, frutti. Si reinventa la vita. Le famiglie hanno dato anche un nome alle strade, nomi di piante e di fiori come Acacia street. I bambini disegnano il mondo e la vita, si sforzano di immaginarne uno dove le famiglie vivono in case colorate, con piante, fiori e animali, ma anche macchine e aerei che non sganciano le bombe e portano lontano le persone felici. Nell’asilo ho colorato insieme a loro decine di frutti sul mio quadernetto, mentre nella stanza delle mamme le donne tornavano a essere prima di tutto donne, a piangere se serviva, e a giocare anche, a ballare con la musica forte». Nel campo imparano anche i diritti che sono stati loro negati. «Il disegno dell’albero dei diritti lo hanno fatto le mamme. Ogni ramo un diritto: la salute, l’educazione, la cura da parte dei genitori, l’uguaglianza, la sicurezza, la protezione, la preghiera, il diritto a esprimersi e partecipare. Io, in un mondo così, ci credo. E cerco di contribuire, quella voglia non mi passerà mai». Nessun rimpianto dunque per la moda? «No. Sono sempre stata una mosca bianca in quell’ambiente e ho sempre dovuto lottare per affermarmi. Sono ben contenta di essere fuori da questo delirio modernista di dover postare tutto su Instagram, dal Sampietrino alla cacca del cane. Adesso avrei grosse difficoltà a stare al passo dei designer, ma quel che è più importante è che non vorrei». Eppure ha resistito in quel mondo per venti anni. Come ha fatto? «Sei come un criceto in una ruota. Corri, corri, e poi corri ancora. Sei schiacciato dal peso delle responsabilità, dai risultati da ottenere, da tempistiche agghiaccianti. È arrivata la dittatura di Instagram, dei followers, dei dj che si reinventano stilisti. Da un lato la novità è interessante e la rottura ha qualcosa di fresco e differente dal passato, dall’altro il tutto sembra sempre non andare al di là dello slogan per cui domandarsi quanto durerà non è un esercizio ozioso». Ci ha detto che avrebbe avuto spesso l’occasione di rientrare. «È successo e ho detto di no. Dopo un anno di disintossicazione sono stata rapita da cose più importanti. Mia figlia ha avuto un problema di salute ora per fortuna del tutto superato. Ma io e mio marito abbiamo passato tre anni in ospedale. Lei non camminava più. E questa risalita dall’inferno ha cancellato qualsiasi velleità di valutare offerte e proposte. Non voglio dire che non tornerò più a fare il lavoro che ho fatto per anni, ma dovrei sentire la farfalla nello stomaco e riavviare i neuroni che ho messo a riposare». Come è stato dividere l’impegno professionale con suo marito? «Sono stati i peggiori anni della nostra vita. Eravamo così ligi e aziendalisti da massacrarci vicendevolmente mattina e sera. Abbiamo smesso di litigare non appena abbiamo smesso di lavorare insieme: quando sei un professionista e hai un ruolo così importante è giusto che ci sia un contraddittorio e un contrasto. E il contrasto noi ce lo portavamo a casa. Ora è passata. Non litighiamo più».
«PENSO CHE IL MONDO DEL LUSSO DEBBA AIUTARE LE ONG»