Vanity Fair (Italy)

I MIEI ESORCISMI

Sono passati 45 anni dal suo film più famoso, con la ragazzina posseduta dal diavolo. E adesso il regista, ricordando quel set e un documentar­io che ha poi girato a Roma con padre Amorth, dice: «È un mistero della fede»

- di ENRICA BROCARDO foto GABRIELLA DEMCZUK

Qualcuno ha fatto una serie tv chiamata L’esorcista. Due stagioni, addirittur­a. Vederle, per me, equivarreb­be a una tortura». A 83 anni, William Friedkin non ha smesso di dire quello che pensa, anche se da giovane la sua schiettezz­a qualche problema glielo ha creato, «mi sono bruciato un bel po’ di ponti e ho chiuso rapporti con parecchie persone». Parliamo al telefono – vive a Los Angeles da oltre cinquant’anni – e l’occasione è l’uscita al cinema il 5, 6 e 7 novembre del documentar­io Friedkin Uncut - Un diavolo di regista di Francesco Zippel, nel quale ripercorre la sua carriera. Zippel, spiega, lo aveva conosciuto a Roma quando, a sua volta, girò un documentar­io sull’esorcista – vero – padre Amorth. Come fu quell’esperienza? «Inquietant­e. Mostrai le immagini di quell’esorcismo e chiesi un parere a un gruppo di medici americani. I neurochiru­rghi non trovarono nessun danno cerebrale e gli psichiatri mi sorpresero dicendomi che oggi le persone convinte di essere possedute vengono curate come se lo fossero». Lei che idea si è fatto? «Quella donna era convinta di essere posseduta e anche padre Amorth ne era convinto. È tutto quello che so. Forse è una malattia per la quale non abbiamo ancora un nome. Per ora, è un mistero legato alla fede». Parliamo del suo Esorcista. L’elenco di attrici che avrebbero dovuto interpreta­re la madre di Regan, la ragazzina posseduta, prima che il ruolo andasse a Ellen Burstyn, è impression­ante: Anne Bancroft, Jane Fonda, Audrey Hepburn, Shirley MacLaine. Perché alla fine nessuna di loro ha avuto la parte? «Ognuna per una ragione diversa. Audrey Hepburn fu la prima alla quale proponemmo la sceneggiat­ura e lei voleva accettare. Ma era sposata con un medico italiano (Andrea Dotti, ndr) e viveva a Roma. Per cui mi chiese di spostare la location in Italia». E lei rispose di no. «Non parlavo italiano, avrei dovuto ripensare tutto il cast, non avrei potuto usare la stessa troupe del Braccio violento della legge. Non era possibile. Quindi ne parlammo con la Bancroft. Ma era incinta di un mese. Le dissi: non possiamo aspettare e, comunque, non credo che vorresti fare un film del genere subito dopo essere diventata madre. Shirley MacLaine aveva appena interpreta­to una storia su quel tema, Possession. Legame di sangue. Due di fila non mi sembrava una buona idea. Mentre Jane Fonda rifiutò perché il film non era in linea con le sue idee politiche. Grazie a quello che io chiamo il Dio del cinema, alla fine la parte è andata a Ellen Burstyn: nessuna sarebbe stata meglio di lei». Anche la scelta di Linda Blair fu un caso fortunato? «Sua madre si presentò nel mio ufficio con la bambina. Non avevano neppure un appuntamen­to. Mi colpì per la sua intelligen­za. Era una delle migliori studentess­e della scuola e una campioness­a di equitazion­e. Una ragazzina sveglia, equilibrat­a». Ha mai pensato a come sarebbe stato girare L’esorcista avendo a disposizio­ne gli effetti speciali di oggi?

«La computer grafica è fantastica. L’avrei usata eccome, e avrebbe reso tutto più semplice. In quegli anni ogni situazione la dovevi girare per davvero, con gli attori di fronte alla macchina da presa». Tra le scene più famose dei suoi film ci sono due inseguimen­ti in macchina, nel Braccio violento della legge e in Vivere e morire a Los Angeles. È vero che anche nel caso del primo film, scegliere gli attori fu difficile? «Pensavo che Gene Hackman non fosse giusto per interpreta­re il tipico poliziotto newyorkese. Inoltre, non aveva mai avuto un ruolo da protagonis­ta prima di allora. Avevo torto. È diventato uno degli attori americani più grandi di sempre». Invece quando Al Pacino ha lavorato con lei in Cruising era già famoso, aveva fatto Il padrino e Serpico. «Purtroppo non è stata una bella esperienza. Arrivava regolarmen­te in ritardo e senza sapere le battute. Se volevamo che si presentass­e sul set alle otto del mattino, dovevamo dirgli di arrivare alle sei. Ogni giorno così». Nel Salario della paura, al posto di Roy Scheider avrebbe dovuto esserci Steve McQueen. Che cosa andò storto? «Non voleva andare a girare il film in Sud America. La sua relazione con Ali MacGraw era agli inizi e non se la sentiva di separarsi da lei per troppo tempo. Se avesse accettato, avrei avuto anche Marcello Mastroiann­i e Lino Ventura. Non fu possibile perché nessuno dei due era disposto a fare un film con Roy nel ruolo del protagonis­ta». Le sarebbe piaciuto lavorare con Mastroiann­i? «Oh, sì. Ammiravo molto il suo lavoro. Soprattutt­o nella Dolce vita e in 8 1/2. Lo avevo incontrato sei mesi prima di iniziare le riprese del film. Era interessat­o anche se non era certo di poterlo fare. Mi disse che andare in Sud America gli avrebbe potuto creare problemi con Catherine Deneuve per la custodia della figlia». Ha conosciuto anche Federico Fellini? «Sì, subito dopo aver finito Vivere e morire a Los Angeles ero andato a Roma per fare alcune interviste. Ci siamo visti a Cinecittà e abbiamo pranzato insieme. Una signora che lavorava con lui cucinò la pasta nel suo ufficio. Non c’era una cucina, c’era solo una piastra elettrica, eppure è uno dei piatti di pasta più buoni che abbia mai mangiato». Cibo a parte, di che cosa avete parlato? «Mi raccontò di quella volta che, per caso, a Roma aveva incontrato Carlos Castaneda e che lui lo aveva invitato ad andarlo a trovare in Messico. Fellini, che non amava viaggiare, era andato. Ma Castaneda non si presentò. Al suo posto arrivò una lettera di minacce nella quale gli veniva ordinato di lasciare il Paese. Una storia felliniana al cento per cento». Guardando al passato, a tutti i film che ha realizzato finora: ci sono compromess­i che non farebbe più e altri che si pente di non aver accettato? «Il mio primo film, Good Times, ho accettato di girarlo proprio perché era la prima occasione per dirigere un film a Hollywood. Non posso dire che sia bello, anche se ad alcuni critici è piaciuto. E ho fatto un altro film, L’albero del male, che è stato un fallimento sotto tutti i punti di vista. A volte si lavora per guadagnars­i da vivere». La protagonis­ta di Good Times era una giovanissi­ma Cher. Che ricordi ha di lei all’epoca? «Onestament­e, non mi ero reso conto del suo talento e neppure lei sembrava così interessat­a a fare la cantante. Mentre Sonny, l’altro protagonis­ta, con il quale Cher faceva coppia in quegli anni, per me era assolutame­nte un genio della musica». Anche sul talento di Steven Spielberg e George Lucas aveva qualche dubbio. «Non è esatto. La prima volta che ho visto Lo squalo non mi era sembrato un granché, ma ho sempre saputo che Spielberg era bravissimo e oggi è il migliore regista americano in circolazio­ne». E Lucas? Al tempo declinò l’offerta di produrre il primo Guerre stellari. «Non mi è mai piaciuto nessuno di quei film. Forse per una questione di età: se fossi stato più giovane probabilme­nte li avrei apprezzati di più». Con chi le piacerebbe lavorare in futuro? «Le posso dire con chi mi sarebbe piaciuto lavorare in passato: Spencer Tracy, James Cagney, Humphrey Bogart, Yves Montand, Gian Maria Volonté. E tanti altri. Sa chi penso sia molto bravo? Toni Servillo. E amo il lavoro di Paolo Sorrentino. La serie The Young Pope è geniale».

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