Vanity Fair (Italy)

LA BELLEZZA IMPERFETTA

Per Paolo Pellegrin, ogni foto importante è frutto di un «allineamen­to di cose», che quando avviene lo senti e lo sai. Molti dei suoi lavori diventano ora una mostra al Maxxi di Roma, che racconta 20 anni della sua opera e della nostra storia

- di SILVIA NUCINI foto PAOLO PELLEGRIN

P Per Paolo Pellegrin ogni fotografia importante è un piccolo miracolo, un «allineamen­to di cose» che, quando avviene, lo senti e lo sai. Per talento ed esperienza, quella sensazione Pellegrin – fotografo Magnum e vincitore di 10 World Press Photo Award, più un’altra lunga serie di premi – in trent’anni di carriera l’ha sentita più spesso di quanto una certa ritrosia gli consenta di ammettere. Per celebrare il suo lungo lavoro di racconto, il museo Maxxi di Roma ha allestito Paolo Pellegrin. Un’antologia, una grande mostra curata da Germano Celant che, attraverso più di 150 immagini – di cui alcune inedite – e video, ripercorre gli ultimi 20 anni del suo lavoro e, quindi, anche della nostra storia. In occasione della mostra (7 novembre-10 marzo 2019), verrà allestito anche un grande polittico commission­ato al fotografo dal museo, sulla città di L’Aquila: 140 foto singole e spostabili, al momento posizionat­e in modo che le luci e le ombre delle immagini creino una grande «frattura» nella struttura. E proprio a L’Aquila, nella primavera del 2019, aprirà un secondo museo Maxxi dove saranno esposti quattro notturni firmati Pellegrin, uno dei quali vi presentiam­o in anteprima. «Ho scattato le foto del polittico in città e poi, a lavoro concluso, come spesso faccio, ho preso la macchina e sono andato nella natura. Ho deciso di lavorare di notte perché c’era una luna incredibil­e. La luna è qualcosa che ricorre nella mia vita: è il nome della mia prima figlia, e in famiglia ci piace passare il tempo a guardarla. Per tre notti di luna piena ho girato nelle campagne intorno a L’Aquila e posizionat­o la macchina su un cavalletto, lavorando lento, lasciando che la natura interferis­se, come ha fatto il vento, che muoveva l’attrezzatu­ra. Ne è venuta fuori una celebrazio­ne della bellezza di quei luoghi, la loro anima selvaggia, qualcosa di indefinito che mi piace abbiano i miei lavori». Il non finito è una sensazione che ricorre nei suoi scatti. «Un’immagine viene finita nel momento in cui viene guardata. A me interessa un tipo di fotografia aperta, in cui il fotografo suggerisce, ma lascia a me, spettatore, la facoltà di chiudere il suo racconto. Ci sono foto meraviglio­se che non ti permettono di entrare, esistono per quello che sono. Per me, però, ogni immagine è un invito al dialogo». È più difficile fare foto aperte o chiuse? «È molto difficile scattare. Pensiamo sia facile, perché lo facciamo tutti, tutti i giorni, con i nostri cellulari, ma non è così. Lasciare le foto aperte è per me una costante nemmeno più razionale; nella mia mente c’è una presenza invisibile che è quella del lettore a cui non voglio mai dire: è così. Perché nulla è così». Lei ha fotografat­o moltissime situazioni: guerre, catastrofi naturali, ha fatto ritratti a celebrity e foto di natura. C’è una dimensione che sente più sua? «La fotografia di reportage, quella umanistica, è la pietra angolare del mio lavoro. Poi però, per caso e vita, mi capita di esplorare campi diversi. Kathy Ryan, picture editor del New York Times Magazine, mi ha spinto a fotografar­e personaggi famosi e sportivi. E mi è piaciuto farlo, perché provare tutti gli ambiti è un modo di onorare la fotografia. Una volta ho lavorato anche nel backstage delle sfilate di moda, un luogo che potrebbe sembrare frivolo, e forse lo è davvero, che però io ho cercato di trattare in maniera seria».

«I MIEI SCATTI DEVONO LASCIARE A CHI GUARDA LA FACOLTÀ DI CHIUDERE IL RACCONTO»

Nel lavoro di reportage c’è anche una dimensione avventuros­a. Quanto è affezionat­o a questo aspetto della profession­e? «Jan Vermeer ha raccontato il mondo stando chiuso in una stanza. Io non ho mai inseguito il rischio e l’adrenalina. Questi sono aspetti collateral­i della profession­e, nemmeno importanti». Però, al di là che lo si faccia in una situazione pericolosa o meno, ci vuole sempre un po’ di coraggio a tirare fuori una macchina fotografic­a e scattare. «Certamente con una macchina in mano non ti puoi nascondere, è uno statement: “Sto facendo una foto”. Per cui sì, ci vuole coraggio, sempre, soprattutt­o per chi è fondamenta­lmente timido, come lo sono io. Ma la timidezza – ho capito – è anche un modo per entrare in sintonia con la gente: il pudore e la delicatezz­a spesso portano a provare empatia nei confronti di chi sta davanti al tuo obiettivo. La fotografia, lo scatto, è sempre l’ultimo atto di una cosa diversa: un incontro. In tanti anni che faccio foto, posso dire di essere sempre stato ben accolto dalle persone, e penso sia perché ho un modo di pormi gentile e attento all’altro». Riguardand­o tutte le foto in mostra, vede che il suo modo di lavorare è cambiato? «La fotografia è un linguaggio vivo, siamo noi: cambia come noi cambiamo. E le cose della vita la cambiano. Per molti anni ho lavorato su una fotografia di tipo additivo, ragionavo molto sulle composizio­ni complesse, fatte di più piani, alla ricerca di una profondità che le immagini per loro natura non hanno. Adesso invece mi trovo a fare la cosa opposta: una fotografia che toglie e che semplifica. Il mio ideale è il gesto del calligrafo giapponese: dire tutto con un solo segno». Quali esperienze di vita hanno cambiato il suo modo di fotografar­e? «Una su tutte: diventare padre. Il primo dato oggettivo, forse banale, è che non voglio correre più i rischi che correvo prima, quando non c’erano altre vite che dipendevan­o dalla mia. E poi la paternità mi ha reso in qualche modo più in sintonia con le emozioni. O, meglio, ho sempre cercato di esserlo, ma ora capisco le cose in un modo diverso. Non c’è nulla di razionale o mentale in questo processo, è piuttosto qualcosa che passa attraverso il cervello primitivo. Ti nasce un figlio e poi fotografi una madre e capisci cosa sente». Anche la tecnologia cambia lo stile degli scatti? «Certamente. Ma io mi porto sempre dietro anche una macchina non digitale. Ho bisogno di possedere qualcosa di fisico come un rullino, sapere che lì ci sono le mie immagini, e non solo in una combinazio­ne di 0 e 1 come nel digitale». Quando ha capito che la fotografia era la sua strada? «Sono figlio di architetti, studiavo per diventarlo anche io, a Roma. Ma qualcosa non andava e un giorno ho comunicato ai miei che avrei smesso per studiare fotografia. Di lì a poco ho sentito che questo mezzo mi corrispond­eva. Però per sentirmi fotografo a pieno titolo ci sono voluti altri 15 anni: lo sono diventato solo dopo il Kosovo. Sono uscito dalla tempesta di quella guerra con la precisa sensazione di un cambiament­o». Che cosa ha ancora voglia di raccontare con la sua macchina fotografic­a? «Quest’anno, per mettere insieme la mostra, mi sono fermato un po’. Una pausa che non avevo mai preso in trent’anni e che è stata una buona occasione per riflettere. Ho dei progetti aperti che voglio portare avanti: la situazione tra Israele e Palestina, una famiglia rom che vive a Roma che seguo da tre anni. Mi interessa una fotografia lunga e lenta, mi piace quando i singoli scatti diventano un vero corpo di lavoro. In questa prospettiv­a ho voglia di continuare a indagare – ho già iniziato a farlo – il problema del cambiament­o climatico. Un tema molto difficile da raccontare perché implica un tempo lungo, dimensione che la fotografia non è attrezzata a rappresent­are. Ma mi sembra il tema dal quale non possiamo prescinder­e».

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 ??  ?? L’ATTENZIONE, IL CORAGGIO Persone in strada dopo un raid aereo israeliano a Dahiya, Beirut, durante la guerra del Libano del 2006.
L’ATTENZIONE, IL CORAGGIO Persone in strada dopo un raid aereo israeliano a Dahiya, Beirut, durante la guerra del Libano del 2006.
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