STORIE
Michael Douglas sale in cattedra (in tv). (FOTO) I BTS, boy band alla conquista del mondo. Alexandria Ocasio-Cortez, «Dem» anti Trump. Sven Otten, star del web, balla con Topolino. La nuova vita di Frida Giannini. Ultimo, il cantautore primo nella musica. William Friedkin, un «diavolo» di regista. L’atteso memoir di Tata, la moglie di Escobar. Il fotografo Paolo Pellegrin in mostra al Maxxi.
Un padre-icona. Il panico da palcoscenico. Poi, il successo travolgente: uno dei più grandi attori di Hollywood racconta come ha svoltato (imparando a mentire) e dà il «suo» consiglio per farcela. Che ha a che fare con il grande Kirk, e con un film: ricordate Qualcuno volò sul nido del cuculo?
Dinastia. Una parola che si potrebbe usare con leggerezza, ma non nel caso della famiglia Douglas. Michael ha affrontato una questione importante: cosa succede quando tuo padre, Kirk, è l’eroe? Devi impersonare un tipo diverso di eroe. Un personaggio pieno di difetti, come in Attrazione fatale. Oppure un avido uomo d’affari, come in Wall Street. Ma l’attore americano si è stancato dei ruoli classici alla «Michael Douglas», e nei panni del Dottor Hank Pym, nel successo inaspettato della Marvel Ant Man (2015) e Ant-Man and the Wasp (2018), sta esplorando nuovi territori. Dal 16 novembre, inoltre, lo vedremo nella serie Netflix The Kominsky Method: a 74 anni, Douglas non è certo pronto ad andare in pensione. Come sta suo padre Kirk? «Benone, il 9 dicembre compie 102 anni. Ha appena scoperto Facetime sul cellulare, quindi mi chiama ogni sera. È ancora lucidissimo». Anche sua madre era un’attrice. Sono stati la sua fonte di ispirazione? «Direi di sì. Mio padre ha fatto più di cento film, andavo spesso sul set, e dietro le quinte in teatro, da mia madre (Diana Dill, ndr). Nel 1963, scelsi il corso di studi di teatro alla University of California a Santa Barbara. All’inizio ero pessimo, alla prima performance avevo chiesto a mio padre: “Come sono andato?”, e lui: “Non molto bene, figliolo”. Avevo il terrore del palco, spesso vomitavo prima di recitare. Ma continuavo a provarci, e più miglioravo più ci prendevo gusto. Mi sfinivo cercando disperatamente di non fingere davanti alla cinepresa, di avvicinare il più possibile il personaggio alla realtà. Era un errore: ci ho messo anni per capire che recitare è la migliore bugia a fin di bene che puoi dire. Finalmente, nel 1987, con Attrazione fatale mi sono sentito libero di “fingere”, non ero più a disagio». Aveva quasi 40 anni a quel punto… «Sì. Tre mesi dopo uscì Wall Street e vinsi l’Oscar come migliore attore. Penso che quel traguardo mi abbia dato la fiducia necessaria per uscire dall’ombra di mio padre. Mi sono divertito, non ho più sentito il bisogno di dover dimostrare qualcosa». L’ha aiutata essere il figlio di Kirk Douglas? «Da una parte sì: l’ho visto crescere come attore. Ma ha anche i suoi contro: ho il 50% dei suoi geni e spesso ho sentito commenti come “oh guarda, è uguale a suo padre”. Il che per un attore non è l’ideale, ciascuno deve crearsi un’identità ben precisa. Detto questo, appartenere a una generazione seguente mi ha aiutato a capire prima e meglio il business e le avversità dell’ambiente cinematografico. Vedi tuo padre con i suoi amici – Frank Sinatra, Burt Lancaster, Tony Curtis – e li consideri come persone normali, con le loro insicurezze e le loro manie». Lei ha lavorato come produttore per Qualcuno volò sul nido del cuculo, dopo aver comprato i diritti del libro da suo padre. «Mio padre era anche un produttore di film di successo, tra cui il celeberrimo Spartacus. Aveva trovato il libro, Qualcuno volò sul nido del cuculo, quando non era ancora pubblicato e ne aveva comprato i diritti pensando al teatro. Nel 1960, al culmine della carriera, era tornato a Broadway per dedicarsi a quell’opera, che non aveva avuto successo. Nel frattempo era uscito il libro. Un giorno scopro che mio padre vuole vendere i diritti del libro. Gli dico: “Papà, aspetta, fammi fare un tentativo. Ci dividiamo i crediti di produzione e anche i guadagni. Magari fai tu il protagonista”. E lui: “Perché no, voglio darti una possibilità”. Ho iniziato a lavorarci mentre recitavo nella serie tv Le strade di San Francisco. Quando Saul Zaentz ha accettato di essere mio socio ho lasciato la serie: tutti pensavano che fossi impazzito, andava benissimo. Purtroppo nel frattempo, era il 1975, mio padre era invecchiato e il regista Miloš Forman trovava che non andasse bene per la parte. Il resto è storia». A proposito di tv: che cosa l’ha spinta a lavorare nella serie Netflix The Kominsky Method, dove interpreta un insegnante di recitazione? «Sono un grande fan dell’autore, Chuck Lorre. Avere la possibilità di lavorare in una commedia, con i migliori testi che mi siano capitati negli ultimi anni, così lontani dai format commerciali della tv, è stata una grande occasione. I personaggi di Chuck sono così meravigliosamente imperfetti che tutti possono identificarsi con loro. Lorre è stato un musicista, e credo sia per questo che ha un perfetto senso dei tempi, compresi quelli dei silenzi. Spesso la grandezza di un personaggio è data proprio da ciò che non dice, dalle pause». Come sceglie tra le proposte che riceve? «Leggo il materiale, e prima di tutto deve colpirmi dal punto di vista emotivo. Deve impaurirmi, o divertirmi, o essere romantico. Se tocca le mie emozioni lo rileggo per assicurarmi che la storia abbia fondamenta forti. Non sono così interessato alla mia parte: a volte ne ho una ottima, altre volte ce l’ha un altro... Per me è più importante che il film sia di qualità, perché se è buono io lavorerò bene e tutti gli altri lavoreranno bene. In poche parole, non mi interessa essere bravo in un brutto film». Negli anni Novanta ha fatto una serie di film memorabili. Che cosa le è rimasto più impresso di quel periodo? «C’erano un sacco di storie difficili. Per esempio, Un giorno di ordinaria follia, del 1993, era davvero strano. Tutti i miei film
sono contemporanei, non ho fatto né western né film storici. Mi sarebbe piaciuto variare un po’, ma non è successo». Alcuni avevano una forte componente
erotica, tipo Basic Instinct, del 1992, o Rivelazioni, del 1994. Perché crede che l’abbiano scelta per quei ruoli? «Film come Attrazione fatale o Basic Instinct per me rientravano in una sorta di “zona grigia”. Storie in cui non c’era la classica suddivisione tra buoni e cattivi. Io sono il prodotto della guerra del Vietnam: per quelli della mia generazione non si può distinguere nettamente tra eroi e malvagi, la nostra visione del mondo è piuttosto quella di una zona grigia. Ovvero: in ognuno di noi c’è un po’ di cattiveria, ma tentiamo di fare le cose nel migliore dei modi. Cercavo personaggi che potessero esprimere questo punto di vista, e pensavo di trovarli in film con una vena umoristica o drammatica». La moglie Catherine ZetaJones chiama su Facetime. Michael: «Ciao tesoro, sto facendo un’intervista». Catherine: «Ciao a tutti!». Michael: «Ciao Catherine». I suoi personaggi spesso perdono un po’ il controllo in una specie di «fuori controllo controllato». Come riesce a rendere una cosa così particolare? «Interpretare personaggi costretti a situazioni impossibili è la parte più eccitante per me, come in The Game - Nessuna regola, del 1997. Mi piace immaginare il pubblico che pensa “e ora come ne uscirà?”. In genere risulto simpatico: alla prima proiezione di Attrazione fatale, nella scena in cui – dopo essere stato dall’amante – vado a casa e scompiglio le lenzuola per dare l’idea che ci ho dormito, il pubblico si mette a ridere. Il produttore si volta verso di me e dice: “Non ci posso credere, ti hanno già perdonato!”». Negli anni successivi ha tentato di esplorare nuovi territori. «Nel 2000 ho fatto Wonder Boys, e più del personaggio era il tono a essere diverso, così mi sono avvicinato alla commedia, che è un genere poco considerato, anche se è più difficile rispetto alle storie drammatiche. Tutti apprezziamo le persone con senso dell’umorismo, e così ho iniziato a fare cose più vicine alla commedia, o con effetti speciali, come Ant-Man e Animal World e film in digitale: è interessante recitare con il green screen, è tutto un altro stile». Un altro successo, nel 2013, è stato Dietro i candelabri, in cui lei è il pianista Liberace che aveva un amante molto più giovane. «È stato bellissimo calarmi in un personaggio così esuberante e lavorare con Matt Damon, che era il mio giovane partner. È successo subito dopo la mia lotta contro il cancro. La malattia era al quarto stadio, non sapevo se sarei riuscito a lavorare di nuovo. È stato un periodo molto importante della mia vita, e un film fondamentale per me». Può dirci qualcosa della sua battaglia con il cancro? «Ho fatto chemio e radioterapia come tutti, e sapevo che se non avessero funzionato mi avrebbero dovuto asportare la lingua. Che non è mai una bella cosa, ma per un attore è un problema enorme! Era un tipo di cancro che si trasmette sessualmente, causato dal papilloma, l’Hpv 16. Penso che in futuro i dentisti potrebbero avere un ruolo fondamentale nella diagnosi precoce di questo tipo di cancro». Anche i suoi figli sono attori. Ne è felice? «Il nostro è un mondo difficile, il sindacato parla di un tasso di disoccupazione dell’80%, se ci aggiungi la pressione di tuo padre e di tuo nonno... Cameron, 39 anni, il mio figlio maggiore, nel 2003 è stato in Vizio di famiglia con me e mio padre. Eravamo molto protettivi, ma è stato così bravo che mi sono passate tutte le preoccupazioni. I più piccoli, Dylan, 18, e Carys, 15, adorano recitare, lo fanno da quando avevano 5, 6 anni». Qual è stata la sfida maggiore? «Ho capito che bisogna lavorare sodo sia sui successi che sui fallimenti, nessuno può sapere se qualcosa andrà storto. Forse il film su cui ho lavorato di più è stato Wall Street. Ma ne ho fatti altri che adoravo, come Alla scoperta di Charlie, del 2007, e Solitary Man, del 2009, film piccoli che sono passati inosservati. Mi hanno fatto venire in mente un consiglio di mio padre, ed è la stessa cosa che dice il protagonista di Qualcuno volò sul nido del cuculo, Randle Patrick McMurphy, mentre cerca di sollevare quell’affare pesantissimo: “Almeno ci ho provato!”. Devi essere certo di avercela messa tutta. E poi puoi andare via». [traduzione di Gioia Guerzoni] In tutto il servizio: completo, Ermenegildo Zegna.
«UN FILM È BUONO SE TOCCA LE MIE EMOZIONI»