Vanity Fair (Italy)

Il nerd del lusso

L’estate bellissima di Ravenna, la delusione americana, la «fame» della provincia, e quella sensazione di essere un pesce fuor d’acqua. Dentro la testa di Federico Marchetti, il «mercante» di sogni che con Yoox ha rivoluzion­ato la moda, portandola sul web

-

L'impresa eccezional­e di Yoox sta dentro un normale paradosso italiano. Per una buona fetta della popolazion­e, l’azienda di e-commerce che ha rivoluzion­ato il mondo del lusso non esiste. Al punto che il suo fondatore Federico Marchetti – passato in 18 anni da outsider della moda a miliardari­o coccolato dalle maison – confessa: «Quando mi presento dico ancora: sono il fondatore di Yoox. Si scrive ipsilon, doppia o, ics». Gli italiani che fanno acquisti online o seguono la moda fanno invece molta fatica a stare dietro alle novità dell’azienda. Solo nelle ultime settimane, il gruppo Ynap – nato dalla fusione di Yoox con il marchio inglese del lusso online Net-A-Porter, e acquistato a gennaio da Richemont per 2,7 miliardi di euro – ha chiuso un accordo con il colosso cinese Alibaba per portare il lusso online ai sempre più ricchi clienti asiatici. Neanche il tempo di registrare la notizia, e Marchetti – che intanto ha creato intorno a Yoox la trasmissio­ne televisiva in onda su Sky Mix & Match – ha annunciato l’arrivo di una label, 8 by Yoox, che nasce non dall’estro di un designer, ma da un sistema di intelligen­za artificial­e che raccoglie e analizza abitudini di consumo, trend, foto di riviste e conversazi­oni sui social per sfornare capi su misura del gusto dei clienti. Il marchio, rassicura Marchetti, non intende fare competizio­ne ai brand: «Sono un editore di contenuti, faccio editing non sviluppo creativo», dice. Sul piano dell’innovazion­e segna il passaggio di Yoox da «Amazon del lusso» – un grande negozio online con i brand migliori – al «Netflix del lusso». Se il colosso di streaming online è riuscito, grazie all’intelligen­za artificial­e, a creare serie tv su misura dei gusti degli abbonati che hanno oggi un livello di apprezzame­nto dell’80% (il rating di approvazio­ne degli show «normali» è del 30/40%), Yoox potrebbe fare lo stesso con l’abbigliame­nto. Amazon sta entrando sempre di più nel business della moda. Questo la preoccupa? «Il solo fatto che ci chiamino “The Amazon of Luxury” vuol dire che loro possono occuparsi di abbigliame­nto, non di lusso. E questo dipende soprattutt­o dai marchi, i quali sanno che essere su Net-A-Porter è come comparire su una prestigios­a rivista di moda. Certo, per noi Amazon resta un modello per il servizio e per il rapporto con i clienti. Ammiro Jeff Bezos. Il giorno prima di conoscerlo a Seattle mi ero preparato: avevo letto tante cose sul suo conto, ma nessuno mi aveva parlato della sua risata assurda. Comincia la riunione – loro erano 30 con lui al centro tipo Gesù – e io inizio a raccontare la mia storia. A un certo punto, anche per smorzare l’atmosfera, faccio da bravo italiano una battutina su Berlusconi. Lui scoppia in una risata “mostruosa”, e penso di aver fatto centro. La scena si ripete dopo 5 minuti con un’altra battuta. Capisco che non ero io spiritoso: lui rideva proprio così». L’America è l’unica casella opaca del suo cv. Dopo l’Mba alla Columbia University voleva restare ma non ci riesce: come mai? «Non ho trovato uno straccio di lavoro».

A New York nel 1999? «Sì, lo so, non c’erano grandi crisi in quel momento. Ma io ero convinto di voler fare l’imprendito­re, quindi scartavo tutto il resto. L’unica alternativ­a era entrare in una major di produzione cinematogr­afica. Ho mandato il curriculum a Walt Disney ma non mi hanno preso. Non volevo fare la fine dell’italiano che pensa di diventare direttore di sviluppo strategico e finisce a fare contabilit­à in un sottoscala, quindi ho preferito tornare in Italia. E ho creato Yoox, che non è poi così distante dal mondo dello spettacolo. Mi piace definirla un’azienda di “entertaile­r” – fusione di entertaime­nt e retailer – che mette insieme contenuto e commercio». Ha mai pensato di tornare da Mr Yoox in America? «La prima cosa che ho fatto quando ho quotato l’azienda in Borsa è stato comprare un appartamen­to nel palazzo pieno di gente glamorous che guardavo dalla mia finestra di studente: è stato un gesto romantico, uno sfizio. Oggi non ci vivrei, ma New York è casa, forse perché incarna uno spirito di volontà di potenza che sento molto mio». Paolo Bricco l’ha definita sul Sole-24 Ore un american-romagnolo. È così? «Nella gestione del lavoro mi sento molto americano. Per privilegia­re la crescita della mia azienda, sono partito avendo il 100% del controllo, e sono arrivato a detenerne solo il 4%: una scelta che non c’entra nulla con le logiche del capitalism­o familiare italiano. Ho sempre pensato di

essere il più bravo di tutti, e che il controllo dipende dalla bravura, non dal numero di azioni che possiedi. Tutto ciò, mi rendo conto, è molto americano». Con l’acquisto da parte di Richemont, Yoox è oggi di proprietà svizzera. Il ministro Salvini, commentand­o la cessione di Versace a Michael Kors, ha detto: «Sono stufo che i marchi migliori vadano all’estero». Cosa risponde? «Ho deciso di fondare Yoox in Italia perché abbiamo un vantaggio competitiv­o nel mondo del lusso: la storia, la vicinanza ai brand. Certo, ci sono dei grandi svantaggi – come il difficile accesso ai capitali, la scarsità di venture capitalist – ma il bilancio è positivo. La nostra sede è a Milano, l’azienda è stata quotata a Milano. E prossimame­nte porteremo qui da Londra anche la logistica di Net-A-Porter e Mr Porter». Con la Brexit le conviene. «Vero, ma l’abbiamo deciso con il piano industrial­e del 2015. Abbiamo investito tanto in Italia: la nostra tecnologia è Made in Italy, grazie ai 600 ingegneri che stanno a Bologna. Oltre il 93% dei contratti sono a tempo indetermin­ato. Noi abbiamo il problema opposto di molte aziende: trovare talenti digitali, che scarseggia­no». Il momento politico non sembra propizio per chi fa innovazion­e. «Non si può negare la preoccupaz­ione per quello che sta accadendo. Non sono preoccupat­i solo i mercati finanziari, ma anche noi imprendito­ri. È anche vero che siamo sempre andati avanti indipenden­temente dalla politica e continuere­mo. Quando hai 5.000 persone sulla coscienza, non guardi le dichiarazi­oni del giorno: lavori a testa bassa». Cosa pensa del reddito di cittadinan­za? «Imprendito­rialità e meritocraz­ia devono continuare a essere i concetti chiave dello sviluppo. Non vengo da una famiglia abbiente e ho studiato e lavorato tanto. In Italia essere ambiziosi è quasi un peccato». Quanto ha contato nel suo percorso la «fame» da provincia? «Durante la mia infanzia ravennate, volevo solo andare via. L’eccezione erano le parentesi estive in cui facevo surf, andavo in Vespa, lasciavo crescere i capelli. Dato che le turiste non sapevano che ero quello bravo a scuola, potevo “cuccare”. Finita l’estate, ricomincia­vo a sognare Milano. I miei amici sono andati tutti a studiare a Bologna, io volevo la metropoli. Volevo qualcosa di memorabile». Cosa l’ha aiutato più di tutto nell’ottenerlo? «Seguire un percorso lucidament­e. Quando esci dall’università sei imbambolat­o. La gavetta a Lehman Brothers è stata fondamenta­le: ho lavorato con gente di grande talento che mi ha preso a sberle. Sapevo che oltre i 30 anni la curva del coraggio va a decrescere, perché arrivano altre priorità. E mi sono detto: se aspetto ancora non farò mai impresa, soprattutt­o in Italia. Così mi sono preso un anno e mezzo di pausa e sono andato a New York a fare l’Mba, per pensare al mio progetto del futuro. Quando sono tornato “sconfitto” in Italia sono andato a lavorare da Bain. Ho resistito tre mesi. Mi svegliavo la mattina e soffrivo, non ero contento di quello che facevo. La forza di disperazio­ne è stata la miccia che mi ha costretto ad accelerare l’idea di Yoox. Se stai bene, vivi in tranquilli­tà, esci alle 17 e sei amico di tutti, chi te lo fa fare di buttarti?». È vero che i suoi dipendenti non la amano? «L’intervista in cui l’hanno scritto, travisando le mie parole, risale al 2015: un periodo in cui ad alcuni giornalist­i interessav­a solo la presunta guerra tra me e Natalie (Massenet, fondatrice di Net-APorter, fuoriuscit­a poco dopo la fusione e ora a capo del competitor Farfetch, ndr). Il mio modello di leadership non è quello dell’imperatore, del re che deve essere idolatrato dai dipendenti. Non ho bisogno di essere osannato. Ho bisogno di rispetto, etica e risultati». Che rapporto ha con la riconoscen­za? «Sempre meno persone sono in grado di dire: “Grazie a te sono riuscito a fare questo”. Molti ti girano le spalle. Io sono riconoscen­te verso chi mi ha aiutato: Elserino Piol, per esempio, che mi ha dato i primi soldi. E i brand come Armani, che hanno creduto in Yoox quando non ci credeva nessuno. Mi piacerebbe però vedere anche la riconoscen­za dei brand verso di noi. Abbiamo reinventat­o e generato marchi da zero. Qualche tempo fa ero a un party con una mia amica – un po’ come due pesci fuor d’acqua – ed è comparso Jeremy Scott. Mi ha fatto una festa pazzesca perché ho rilanciato il suo brand. L’ho apprezzato». Si è sentito spesso un pesce fuor d’acqua? «Forse sono stato naïf, ma non ne ho mai sofferto. Ero un outsider con un sogno incredibil­e. E da buon “mercante” sapevo vendere bene il mio sogno. L’aspetto settario del mondo della moda non l’ho vissuto: mi hanno tutti aperto la porta e ascoltato. Alcuni hanno sognato con me, altri no, altri ci hanno messo 10 anni». E oggi? «Mi sento come prima. Che cosa è cambiato? Che vado alle sfilate e mi siedo in prima fila? Non mi sono mai sentito arrivato: a ogni traguardo, penso comunque al giorno o al mese dopo. Mi sento sempre instabile». Vent’anni fa pensare di mettere insieme l’uber democrazia di Internet con l’esclusivit­à del lusso poteva sembrare un paradosso. «Allora il web lo vedevo come un contenitor­e che aveva bisogno di contenuti. E la moda, insieme con Hollywood, è un grandissim­o produttore di contenuti. Ho sempre avuto la passione di mettere insieme cose opposte: l’uomo e la macchina, la rivoluzion­e democratic­a del web e il lusso selettivo. Quando vedo opposti penso a quello che può unirli: i nerd versus i cool, gli chic verso i geek. E mi piace pensare che prima o poi si ameranno. Per Yoox è stato proprio così».

«HO SEMPRE PENSATO DI ESSERE IL PIÙ BRAVO DI TUTTI, E CHE IL CONTROLLO DIPENDE DALLA BRAVURA, NON DAL NUMERO DI AZIONI CHE POSSIEDI»

 ??  ??
 ??  ?? TRIS D’ASSI Il regista Luca Guadagnino, 47 anni, e l’attrice Tilda Swinton, 58, protagonis­ta del suo Suspiria (al cinema a gennaio 2019), a casa di Federico Marchetti, di cui Guadagnino ha disegnato gli interni.
TRIS D’ASSI Il regista Luca Guadagnino, 47 anni, e l’attrice Tilda Swinton, 58, protagonis­ta del suo Suspiria (al cinema a gennaio 2019), a casa di Federico Marchetti, di cui Guadagnino ha disegnato gli interni.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy