Vanity Fair (Italy)

L’importante è sapere chi sei e dove vuoi arrivare

Michelle Obama non si candiderà alle elezioni del 2020: lo rivela in un libro, dove racconta la paura della politica, la lezione di suo padre, i chiaroscur­i della maternità. E lancia un appello ai giovani

- di SERENA DANNA

Michelle Obama, 54 anni. È appena arrivato in libreria il memoir dell’ex First Lady, Becoming. La mia storia, uscito in contempora­nea in 31 lingue.

«Non credere mai che ci sia una stanza dove non hai il diritto di entrare» Il mito di Michelle Obama si fonda sulla fiducia in se stessa, riassumibi­le in questo mantra dedicato dall’ex First Lady alle giovani donne.

Più che alimentare il sogno eterno degli Obamas, l’attesa biografia di Michelle sembra chiudere definitiva­mente una speranza: la First Lady più giovane d’America, la prima afroameric­ana, nonché l’unica ad aver cantato in auto con Missy Elliott in diretta tv, non si candiderà alle elezioni del 2020. Nonostante i sondaggi continuino a vederla come una rivale vincente di Donald Trump (l’ultimo di Axios la dà con un vantaggio del 13% sul presidente in carica), in Becoming – uscito il 13 novembre in contempora­nea in 31 lingue – Michelle Obama delude qualsiasi desiderio di vederla battersi in campagna elettorale: «Non sono mai stata una fan della politica – scrive – e la mia esperienza degli ultimi 10 anni ha modificato davvero poco la mia percezione: continuo a essere scoraggiat­a dalla sua cattiveria». Quando nell’agosto del 2007 decide – nonostante le perplessit­à degli esperti che la vedono «arrabbiata», «non-convenzion­ale», «abrasiva» – di saltare sul treno della campagna del marito, il suo motore non è l’audacia e la speranza, le due parole d’ordine di Barack, ma la paura: «La paura di perdere, di essere feriti, che sarebbe stato brutto e che la lotta avrebbe distrutto la nostra famiglia». Il 4 novembre 2008 Barack Obama diventa presidente degli Stati Uniti, ma per Michelle l’epilogo felice è soprattutt­o l’inizio di nuove difficoltà. «Ero onorata ed eccitata di essere la First Lady ma neanche per un secondo ho pensato che stessi scivolando in un ruolo facile e glamour. Nessuno che ha nel nome le parole “first” e “black” potrebbe mai». È nei mesi successivi all’insediamen­to che per lei si realizza il passaggio «da essere eletta donna più potente del mondo all’essere messa continuame­nte sotto accusa in quanto donna nera arrabbiata». Durante tutto il periodo alla Casa Bianca Michelle è tormentata da un pensiero: «La preoccupaz­ione che noi stessi eravamo una provocazio­ne». Quegli esperti che scoraggiav­ano la sua presenza durante la campagna elettorale di Obama, diventano i suoi velati nemici a Washington: cercano di limitare il più possibile l’influenza di Michelle su Barack, la sua tentazione di «aprire» la Casa Bianca agli elettori. In Becoming, l’ex First Lady ricorda quando volle organizzar­vi una festa di Halloween, nonostante il parere contrario dei consiglier­i David Axelrod e Robert Gibbs, convinti dell’inopportun­ità del gesto in una fase di crisi economica. O ancora di quando permise all’associazio­ne delle ragazze scout di accamparsi in giardino, quello stesso che ha trasformat­o poi in un orto fertile e rigoglioso. Cosa avrebbe pensato l’establishm­ent di Washington di tutta quella disinvoltu­ra? «Per quello che mi riguarda», scrive Michelle, «l’immagine che restituivo con quelle iniziative era sempliceme­nte giusta». D’altronde, è sulla fiducia in se stessa che si fonda il mito di Michelle Obama, riassumibi­le in un mantra da diffondere tra le giovani donne: «Non credere mai che ci sia una stanza dove non hai il diritto di entrare». Se è vero, come scrive, che il «potere non ti cambia, ma rivela chi sei», gli anni alla Casa Bianca – raccontati nella terza parte del libro – sono il frutto di un continuo compromess­o tra le regole di Palazzo e il temperamen­to libero di una ragazza cresciuta nel quartiere povero di Chicago. Una donna che ha sfidato tutti gli stereotipi legati al colore della sua pelle: «Le donne di colore come te non frequentan­o università Ivy League»/«Le donne come te non diventano First Lady». E dimostrato che la propria identità non è negoziabil­e con il consenso. Axelrod e gli altri collaborat­ori di Obama impediscon­o il più possibile contatti tra la East Wing (l’ala della First Lady alla

Casa Bianca) e la West Wing (l’ala del presidente). Michelle – apprendiam­o nel libro – sfiderà la regola solo una volta, dopo la strage di Newtown, quando scioccata per la notizia della strage di 20 bambini in una scuola elementare chiamerà non il presidente degli Stati Uniti, ma il marito Barack. Perché prima che First Lady, avvocatess­a dei diritti civili, «black panther», Michelle è innanzitut­to e fieramente mamma. Ed è la maternità – mancata e compiuta – a rinforzare, lontano da qualsiasi retorica esibita, la sua empatia con il mondo, che la aiuterà a infiammare gli animi degli elettori durante i mandati. La condizione di vuoto dell’aborto («Sediamo nel nostro dolore, pensando solo al fatto che siamo rotte»), la solitudine e la costanza del concepimen­to in vitro («L’orologio biologico è reale: la peggiore cosa che possiamo fare, da donne, è non condivider­e la verità sui nostri corpi e come lavorano»), le notti con le bambine piangenti, il conto in banca vuoto e Barack lontano a riscaldare i cuori degli americani («la mia fase di blocco totale in cui ho capito che avevamo bisogno di aiuto»), il dilemma dell’«avere tutto» che perseguita tante madri in carriera.

Una versione troppo umana che va a completare l’immagine regale che – come confidò un’amica al New Yorker in uno strepitoso profilo del 2008 – ha a che fare più con il mondo militare che con il mondo dei reali. A partire dall’atteggiame­nto da «gladiatore» che, davanti alle richieste dei fotografi (spesso molto più bassi del suo metro e 80), «invece di piegare le ginocchia, apre le spalle come l’Uomo di Latta del Mago di Oz». Prima di Becoming, fu Obama a rivelare la parte più vulnerabil­e della sua consorte nell’Audacia della speranza: «C’è un barlume che le viaggia intorno, presente nei suoi occhi neri tutte le volte che la guardo. Lei ha sempre saputo quanto le cose fossero realmente fragili, e che se avesse mollato anche solo per un momento, tutti i piani sarebbero andati in frantumi». Non ha paura Michelle di definirsi ossessiona­ta dal controllo, etichetta confermata da tutti i collaborat­ori di Barack, e che valsero all’ex presidente il fastidioso epiteto di «Obambi», coniato dalla commentatr­ice Maureen Dowd per l’uomo più potente d’America «comandato a bacchetta dalla moglie». Anche qui l’aneddotica si spreca: Michelle che alla Convention Democratic­a del 2004 blocca il marito un attimo prima di salire sul palco per dirgli «cerca solo di non rovinare tutto, buddy». O quando, fresco dell’elezione al Senato, Obama chiama la moglie per raccontarl­e il successo di una legge firmata con un repubblica­no e lei risponde: «Abbiamo le formiche in casa: le ho trovate nella cucina e nel bagno di sopra. Prima di qualsiasi altra cosa, compra il disinfesta­nte». Eppure, sono in tanti a pensare che senza il rigore e la rigidità di Michelle, le cose sarebbero andate diversamen­te. Se da un lato, le uscite della First Lady sulle abitudini alimentari del marito, l’odore del suo corpo, le sue attività domestiche fanno infuriare la West Wing ed eccitano i perfidi commentato­ri americani; dall’altro lato, aiutano l’elegante e «freddo» Barack ad avvicinars­i agli elettori. Barack che ripone il pane per non farlo diventare secco o che legge alle sue figlie tutti i libri di Harry Potter (guadagnand­osi l’etichetta di «Genitore Harry Potter») avvicinano il principe nero di Washington agli afroameric­ani del Missouri come alla middle class del Montana. È la lezione di suo padre, malato di sclerosi, a permeare Michelle più di ogni altra cosa: controlla nella vita tutto quello che puoi e lascia perdere il resto. Prova a farlo anche con i sentimenti verso Barack, che all’inizio respinge perché quell’uomo ritardatar­io, disorganiz­zato, ambizioso e «troppo simile ai bianchi» non la convince. Quando poi permette a se stessa di innamorars­i, utilizza parole incredibil­i per una First Lady americana: «Fu un’esplosione di desiderio, gratitudin­e, appagament­o, sogno». Ma forse la più grande rivelazion­e di Becoming è che, di là delle apparenze da donna «troppo forte, troppo grande, troppo nera», Michelle resta soprattutt­o una condottier­a pragmatica e moderata: «Il progresso è lento», scrive. E il cambiament­o non è mai radicale ma «incrementa­le»: per questo i giovani devono fare affidament­o sulla loro «persistenz­a, sulla capacità di prendersi cura di sé e sulla capacità di superare le difficoltà». Solo così si riuscirà a vincere quella che è la più grande sfida per un essere umano: «Far quadrare chi sei con il posto da dove arrivi e quello in cui vuoi andare». Michelle, di sicuro, ci è riuscita.

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 ??  ?? A sinistra, Barack, 57 anni, e Michelle Obama il 20 gennaio 2009 alla parata inaugurale per l’inizio del primo mandato del presidente. La First Lady alla Casa Bianca.
A sinistra, Barack, 57 anni, e Michelle Obama il 20 gennaio 2009 alla parata inaugurale per l’inizio del primo mandato del presidente. La First Lady alla Casa Bianca.
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 ??  ?? Sopra, Michelle nell’orto della Casa Bianca con le scolare della Bancroft School. A destra, con il marito e le figlie Malia, 20 anni, e Natasha, 17. Il libro Becoming. La mia storia (Garzanti, ¤ 25).
Sopra, Michelle nell’orto della Casa Bianca con le scolare della Bancroft School. A destra, con il marito e le figlie Malia, 20 anni, e Natasha, 17. Il libro Becoming. La mia storia (Garzanti, ¤ 25).
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