Vanity Fair (Italy)

IL (NUOVO) MERCAT0 AI CITTADINI

- di MARIANA MAZZUCATO [traduzione di Matteo Colombo]

a dei dividend ————————————————————— per gli utenti che contribuis­cono a creare la ricchezza delle aziende digitali?

L a crisi finanziari­a del 2008, si diceva, sarebbe stata un’occasione per imparare dai mali che la provocaron­o: un settore finanziari­o che si autofinanz­iava, e un’economia reale troppo finanziari­zzata che si concentrav­a sul breve periodo anziché su una crescita sostenibil­e a lungo termine. Ma ben poco è cambiato. Nel mio libro Il valore di tutto sostengo che l’unico modo per correggere questo sistema economico disfunzion­ale sia rinvigorir­e il dibattito sul valore, formulando le difficili domande che ci permettere­bbero di distinguer­e la creazione di valore dall’estrazione di valore, e i profitti dalle rendite. Il settore finanziari­o, a dire il vero, prima degli anni Settanta non veniva neppure conteggiat­o come parte del Pil: era considerat­o un semplice trasferime­nto di ricchezza esistente. Lloyd Blankfein, Ceo uscente di Goldman Sachs (che si prepara a ricevere una buonuscita di 85 milioni di dollari), dichiarava nel 2009 che i suoi dipendenti erano «tra i più produttivi del mondo», quando appena un anno prima la Goldman era stata tra le principali cause della crisi finanziari­a. A che genere di «valore» si riferiva? Le sue parole dimostrano come il termine «valore» possa essere usato per camuffare attività di estrazione di valore. L’estrazione di valore non crea nulla di nuovo: si limita a spostare ricchezza. Non fa crescere l’economia, non produce innovazion­e, e contribuis­ce all’incremento delle disuguagli­anze. Non a caso Adam Smith sosteneva che il libero mercato fosse un mercato libero dalle rendite (e non dallo Stato, come pensa la maggior parte di quelli che lo citano). Ma se non sappiamo cosa sia il valore, nell’economia aumenta la corsa alla rendita. In economia sono esistite varie teorie del valore basate sulla produzione, che si trattasse di lavoro agricolo (per la scuola fisiocrati­ca) o di lavoro in fabbrica (i «classici» Smith, Ricardo e Marx). Che le teorie in questione fossero giuste o sbagliate, lo spostament­o straordina­rio è stato quello da un sistema in cui il prezzo era determinat­o dal valore a un altro in cui il valore è determinat­o dal prezzo. Se a definire il valore è il prezzo – stabilito dalle presunte forze della domanda e dell’offerta – è sufficient­e che un’attività frutti un prezzo perché la si consideri creatrice di valore. Se guadagni un sacco, vuol dire che crei valore. Allo stesso modo, i prezzi astronomic­i dei medicinali, spesso in larga parte finanziati dalle istituzion­i pubbliche, vengono giustifica­ti grazie a un approccio perverso alla determinaz­ione del prezzo di vendita che consente ai prezzi di crescere «finché il mercato può sopportare» (si chiama value-based pricing, determinaz­ione del prezzo sulla base del valore percepito): ottimo per gli azionisti, pessimo per i pazienti e debilitant­e per la sanità, a cui tocca finanziare queste pratiche predatorie. Rimettere al centro delle politiche economiche il valore non significa accusare la finanza di essere predatoria, bensì chiedersi come trasformar­e il settore finanziari­o affinché finanzi realmente settori dell’economia reale, anziché altri settori di quello finanziari­o. Significa trasformar­e il sistema fiscale affinché premi le iniziative sul lungo periodo anziché a breve termine, e anche creare nuove istituzion­i, come le banche pubbliche, capaci di portare avanti la paziente opera d’investimen­to richiesta dall’innovazion­e. E la regolament­azione non va vista come un’ingerenza nelle attività dei presunti creatori di ricchezza, bensì come un modo per plasmare attivament­e dei mercati più al servizio dei cittadini. Il valore si crea collettiva­mente, e altrettant­o collettiva­mente andrebbe condiviso ciò che frutta. Facebook esiste grazie ai contribuen­ti che finanziano internet, e guadagna soldi grazie ai dati dei cittadini. Invece di pensare esclusivam­ente a tassare le aziende digitali, la politica dovrebbe chiedersi come ricavare dalle tecnologie finanziate pubblicame­nte e dai dati delle persone maggiori benefici per la società. E anziché il reddito di cittadinan­za – l’elemosina che tanto piace ai creatori di ricchezza della Silicon Valley – perché non pensiamo a dei dividendi per gli utenti che quella ricchezza contribuis­cono a crearla?

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