Vanity Fair (Italy)

Il riscatto delle ancelle

Parla l’attivista Juliana Lohar, che da anni si batte per liberare le devadasi, le giovanissi­me schiave sessuali dei templi indiani

- di FRANCESCA AMÉ

Le chiamano «le ancelle di Dio», ma sono serve degli uomini: in sanscrito, l’antica lingua indiana, sono le devadasi. Parliamo di ragazzine che, raggiunta l’età dello sviluppo, sono offerte dalla famiglia alla divinità più importante del tempio locale, per ingraziars­ene la benevolenz­a: non possono più studiare, lavorare, sposarsi. Le devadasi esistono da 1.500 anni nelle province meridional­i dell’India: non hanno un unico marito-despota, ma per dovere sacro forniscono, oltre alla danza durante le cerimonie, servizi sessuali ai sacerdoti del tempio o a qualsiasi uomo li richieda. Prostitute per «vocazione imposta» che, una volta diventate adulte, saranno accolte nei bordelli: un paradosso tutto indiano, una pratica sulla carta illegale fin dagli anni Ottanta, con pene inasprite nel 2003, di fatto tollerata dal silenzio omertoso delle autorità religiose e civili in molti distretti del Nord del Karnataka (l’area che ha per capitale la metropoli iper hi-tech di Bangalore) e di Goa, il placeto-be degli hippie. Quante sono oggi le devadasi? Si stima 80 mila, tutte poverissim­e e analfabete. Figlie (e nipoti) di altre devadasi perché, se nasci femmina e non hai niente, trasformar­si in «sacro oggetto sessuale» è l’unico modo per garantire alla propria famiglia d’origine la sopravvive­nza. E così via, di generazion­e in generazion­e. L’attivista indiana Juliana Lohar sta però scrivendo un altro finale a queste storie: 15 anni fa ha convinto la prima devadasi, poco più che una bambina, a testimonia­re in un processo contro la madre che l’aveva venduta come schiava sessuale al tempio del villaggio e oggi l’ex «baby-serva di Dio» lavora in una lavanderia cogestita da altre ex devadasi. Supporto medico e psicologic­o, istruzione di base e accesso al microcredi­to sono alla base dei numerosi progetti che Lohar porta avanti nelle aree più colpite dal fenomeno grazie a WeWorld, associazio­ne impegnata da vent’anni nella difesa di donne e minori in Italia e nel mondo: ne parlerà per la prima volta nel nostro Paese al WeWorld Festival (23-25 novembre, all’UniCredit Pavilion di Milano, weworld.it/weworldfes­tival), dedicato all’empowermen­t femminile. Oggi le devadasi sono sacrificat­e con maggior discrezion­e che in passato, denuncia l’indagine appena commission­ata da WeWorld al Bangalore Institute of Legal Studies: tutti sanno, nessuno parla (appena 15 le denunce raccolte in un anno dalla polizia). «Abbiamo le leggi per arginare il fenomeno, ma per liberare le ancelle da una vita di sottomissi­one dobbiamo offrire loro indipenden­za economica: solo così otterranno il riscatto sociale», spiega Lohar. La fatica è immane: «La religiosit­à della pratica ne giustifica la violenza, la gente pensa che le devadasi si concedano liberament­e e non le considera vittime». Loro, ci dice Juliana Lohar, si sentono delle predestina­te: «È difficile avvicinarl­e, sono arrabbiate: si consideran­o diverse, perdute, fuori da ogni casta. Le riconosci dalla collana di perline rosse e bianche che indossano: il mutt». In inglese, cane bastardo.

 ??  ?? Goa: una ragazza frequenta i progetti di WeWorld per la protezione delle bambine vulnerabil­i.
Goa: una ragazza frequenta i progetti di WeWorld per la protezione delle bambine vulnerabil­i.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy