Il riscatto delle ancelle
Parla l’attivista Juliana Lohar, che da anni si batte per liberare le devadasi, le giovanissime schiave sessuali dei templi indiani
Le chiamano «le ancelle di Dio», ma sono serve degli uomini: in sanscrito, l’antica lingua indiana, sono le devadasi. Parliamo di ragazzine che, raggiunta l’età dello sviluppo, sono offerte dalla famiglia alla divinità più importante del tempio locale, per ingraziarsene la benevolenza: non possono più studiare, lavorare, sposarsi. Le devadasi esistono da 1.500 anni nelle province meridionali dell’India: non hanno un unico marito-despota, ma per dovere sacro forniscono, oltre alla danza durante le cerimonie, servizi sessuali ai sacerdoti del tempio o a qualsiasi uomo li richieda. Prostitute per «vocazione imposta» che, una volta diventate adulte, saranno accolte nei bordelli: un paradosso tutto indiano, una pratica sulla carta illegale fin dagli anni Ottanta, con pene inasprite nel 2003, di fatto tollerata dal silenzio omertoso delle autorità religiose e civili in molti distretti del Nord del Karnataka (l’area che ha per capitale la metropoli iper hi-tech di Bangalore) e di Goa, il placeto-be degli hippie. Quante sono oggi le devadasi? Si stima 80 mila, tutte poverissime e analfabete. Figlie (e nipoti) di altre devadasi perché, se nasci femmina e non hai niente, trasformarsi in «sacro oggetto sessuale» è l’unico modo per garantire alla propria famiglia d’origine la sopravvivenza. E così via, di generazione in generazione. L’attivista indiana Juliana Lohar sta però scrivendo un altro finale a queste storie: 15 anni fa ha convinto la prima devadasi, poco più che una bambina, a testimoniare in un processo contro la madre che l’aveva venduta come schiava sessuale al tempio del villaggio e oggi l’ex «baby-serva di Dio» lavora in una lavanderia cogestita da altre ex devadasi. Supporto medico e psicologico, istruzione di base e accesso al microcredito sono alla base dei numerosi progetti che Lohar porta avanti nelle aree più colpite dal fenomeno grazie a WeWorld, associazione impegnata da vent’anni nella difesa di donne e minori in Italia e nel mondo: ne parlerà per la prima volta nel nostro Paese al WeWorld Festival (23-25 novembre, all’UniCredit Pavilion di Milano, weworld.it/weworldfestival), dedicato all’empowerment femminile. Oggi le devadasi sono sacrificate con maggior discrezione che in passato, denuncia l’indagine appena commissionata da WeWorld al Bangalore Institute of Legal Studies: tutti sanno, nessuno parla (appena 15 le denunce raccolte in un anno dalla polizia). «Abbiamo le leggi per arginare il fenomeno, ma per liberare le ancelle da una vita di sottomissione dobbiamo offrire loro indipendenza economica: solo così otterranno il riscatto sociale», spiega Lohar. La fatica è immane: «La religiosità della pratica ne giustifica la violenza, la gente pensa che le devadasi si concedano liberamente e non le considera vittime». Loro, ci dice Juliana Lohar, si sentono delle predestinate: «È difficile avvicinarle, sono arrabbiate: si considerano diverse, perdute, fuori da ogni casta. Le riconosci dalla collana di perline rosse e bianche che indossano: il mutt». In inglese, cane bastardo.