Ora canto Vittoria
Gli anni della gavetta e quelli del successo repentino. La maternità e i rapporti con gli uomini fino all’amore «maturo» in cui non è più necessario «complicarsi la vita». Alla vigilia del nuovo film di Filippo Bologna, una delle nostre attrici più amate
«AL PRIMO PROVINO MI RITROVAI IN UNA STANZA INSIEME A CENTINAIA DI RAGAZZE»
Vittoria era sempre da un’altra parte: «Qualche giorno fa rievocavo l’adolescenza con delle amiche di Firenze: “Che età terribile, ve la ricordate?”. Il senso di inadeguatezza, il sentirsi costantemente fuori luogo, l’ansia di non essere accettata e di trovare il proprio posto nel mondo”. Mi guardavano stupite. “Ma che dici? Ma scherzi? Noi ti invidiavamo tutte, per vederti i ragazzi arrivavano dagli altri licei in motorino”». Lei dice, sostiene, giura che il tentativo fosse «di nascondersi più che mostrarsi» e che oggi sia «buffo e paradossale» che il mestiere che si è scelta e che la porta in primo piano «abbia rappresentato una maniera, la mia maniera, di esorcizzare la mia paura di essere giudicata, esposta alle critiche o trovarmi mio malgrado al centro dell’attenzione». Quasi l’esatta metà dei 37 anni di Vittoria Puccini sono trascorsi su un set. Per primo, nel 2000, la scoprì Sergio Rubini: «Al primo vero provino, senza aver mai recitato neanche alle scuole elementari, mi ritrovai in uno stanzone con centinaia di coetanee». Il film si intitolava Tutto l’amore che c’è e delle tre sorelle, Lena, Tea e Gaia, figlie di un ingegnere brianzolo piovute in un piccolo avamposto pugliese a metà dei ’70 per provocare temporali nei cuori dei giovani locali, Vittoria è l’unica ad aver proseguito: «Le altre due attrici, Celeste e Alessandra, oggi si occupano di altro. Io ho continuato e forse non avrei potuto fare diversamente. All’inizio mi dividevo tra gli impieghi occasionali da babysitter e le ripetizioni di italiano. Dopo il trasferimento a Milano, a casa di una zia, mi ero iscritta a un’agenzia per modelle. Ma non volevo chiedere soldi e desideravo essere indipendente». Degli albori ricorda soprattutto la metropolitana tra il Duomo e Cordusio «piena di volti femminili bellissimi e un po’ smarriti tutti a solcare in lungo e in largo la città. Facce che ritrovavi regolarmente buttate per terra tra un’audizione e l’altra in cerca di un’occasione». Il successivo passaggio a Roma. Il tollerante scetticismo dei suoi genitori: «Mio padre, un professore universitario, mi avvertì: “Datti due anni di tempo per realizzare il tuo sogno: se ce la fai siamo felici, altrimenti torni a casa”». Da allora “casa” è stata tanti posti e al punto di partenza, Vittoria non è più tornata. Poco dopo la boa dei vent’anni ha incontrato il successo di Elisa di Rivombrosa: «Me ne accorsi in treno, all’improvviso, leggendo su un settimanale una terna di premiati per il Telegatto. C’erano Maria De Filippi e Simona Ventura e in mezzo a loro, c’ero io. Quel premio lo vinsi e lo conservo ancora, senza spocchia, ma con grande orgoglio». E poi in ordine sparso De Maria, Lizzani, Özpetek, Avati, Muccino, i fratelli Taviani e Paolo Genovese: «Tutti i registi con cui ho lavorato mi hanno lasciato qualcosa» anche se a rivedere le foto di ieri Vittoria non si riconosce più: «Mi sembra una vita fa. Da un lato, anche se non fisicamente – magari fosse davvero così – sono rimasta la stessa. Non mi sono mai montata la testa, non ho costruito un personaggio, non ho mai dovuto indossare maschere che non fossero quelle dei miei personaggi e soprattutto non ho mai fatto finta di essere un’altra da me. Dall’altro, anche grazie ai quei ruoli, ho attraversato decine di esistenze diverse e moltissime trasformazioni». Vittoria andava veloce: «Sono diventata madre di Elena a 25 anni. Ero la più giovane tra le mie coetanee, ma non fu un caso perché io e suo padre (Alessandro Preziosi, ndr) volevamo un figlio e lo cercammo» e poi ha inseguito un ritmo proprio. «La mia crescita», dice, «è andata di pari passo alla maternità». Con sua figlia, che tratta come un’adulta: «Ha una sensibilità incredibile», parla di tutto. «Anche di social network. Lei ancora non li ha, ma guarda il mio Instagram, un Instagram ingenuo che ho imparato a usare da poco e col quale vado un po’ a tentoni, con una pretesa di purezza che mi commuove. Lei già sa che ciò che pretende di essere, ciò che di più autentico esista, non lo è. È tutto filtrato, poco spontaneo, molto costruito. Instagram sventola modelli di perfezione totale che esistono soltanto nell’irrealtà. Elena ne è consapevole, se metto una foto troppo elaborata dice: “Mamma, così è troppo finta”». Della figlia parlerebbe per ore. È il suo “manufatto”, il suo gioiello. La sua montagna russa dalla quale, a un certo punto, è scesa non solo indenne ma arricchita: «Mi ha cambiato la vita, ma ho avuto il privilegio, un lusso che per esempio non potrebbe mai toccare a un avvocato, di poterla crescere tra un set e l’altro. Mi sono sempre fatta in quattro, con le notti insonni perché volevo esserci e non lasciarla praticamente mai. Ho sempre fatto tutto io, a costo di non dormire e oggi quella sicurezza che da ragazza a me mancava, Elena ce l’ha». Sulla lavagna in cucina, mentre i rumori del centro di Roma arrivano soffusi, quasi attutiti, brilla una scritta incastonata da un arcobaleno. Sopra, la data dell’ultima sigaretta. Quasi un anno fa, sempre a novembre. All’epoca in cui insieme a Valentina Lodovini, Riccardo Scamarcio, Isabella Ferrari, Alessandro Haber, Luca Argentero e Ilenia Pastorelli, Filippo Bologna l’aveva convocata per Cosa fai a Capodanno?, il film in cui Vittoria, tra una sosta forzata in una casa di montagna e uno scambio di coppia, si mette in gioco
«MIO PADRE MI DIEDE UN ULTIMATUM: “SE ENTRO DUE ANNI NON CE LA FAI TORNI A CASA”. CE LA FECI»
«AL LICEO MI SENTIVO INADEGUATA, CERCAVO IL MIO POSTO NEL MONDO»
in una metamorfosi che la rende quasi irriconoscibile: «Trasformarti fisicamente è il primo passo per immedesimarti in un abito non tuo, per viaggiare, per convincere chi ti guarda. Al montaggio, l’assistente continuava a chiedere: “Ma chi è questa ragazza? Chi avete preso?”». Era lei, più di ieri, non meno di domani: «Questo film mi ha restituito il privilegio di interpretare un ruolo diverso, quello di una ragazza viziata che prova un plateale disinteresse per tutto e per tutti e che è ingabbiata in una storia che non funziona più con un uomo che detesta, ma che in realtà ha un disperato bisogno di amare ed essere amata». Respira, beve un bicchiere d’acqua, riparte: «Per convincere gli altri che non avrei potuto essere soltanto Elisa di Rivombrosa è servito tempo. Quel telefilm era entrato nell’immaginario popolare e al principio mi proponevano soprattutto parti simili». Anche per questa ragione, dice, variare, diversificare e vestire una femminilità diversa è vitale e i lavori a cui è più affezionata sono proprio quelli che l’hanno portata a lavorare con i “matti” protetti da Franco Basaglia o nei panni di Oriana Fallaci. Un attore, riflette: «Come mi ripeteva fino allo sfinimento Rubini, deve essere disposto a rischiare, deve sentirsi scomodo, deve provare il brivido di camminare sul filo. Un attore, diceva Sergio, deve essere fondamentalmente generoso, perché deve darsi al regista, al pubblico e alla parte». Pausa: «Se vuoi essere attore devi faticà. Se pensi di recitare a tavolino senza abbandonarti alle emozioni non ce la farai mai». Vittoria ha dovuto imparare: «Mi trattenevo, ero molto controllata. Per capire che dovevo sporcarmi e perdere i freni inibitori, proprio come accade in Cosa fai a Capodanno?, sono state necessarie le esperienze che ho affrontato e oggi ho meno paura, anche della caduta. Coltivo una leggerezza e una libertà diversa. Oso. Rischio. Sperimento. Faccio meno fatica di quando avevo 25 anni anche se sono alle prese con una scena molto drammatica». Quando sfilava – «Non è che sfilassi, avrò fatto in tutto due o tre servizi da modella, ma mi sono serviti» – non sapeva come sarebbe andata a finire, adesso lo sa. Merito di se stessa. E di un compagno, il direttore della fotografia Fabrizio Lucci: «Che ha saputo conquistarmi con la sicurezza. È l’uomo più risolto che abbia mai incontrato. Con lui ho capito che l’amore non è necessariamente patema d’animo e sofferenza in attesa di un inevitabile dolore, ma è anche
costruzione quotidiana che ti fa durare nel tempo, complicità, gelato condiviso sul divano guardando una serie, complicazioni da eliminare, sovrastrutture da cancellare, semplicità da ritrovare. Certo, bisogna essere in due, anche quando si incontra un punto di rottura. Si può superare, ma solo se la convinzione è condivisa. Una storia non si salva mai da sola, o si è in due o non si è». Se le chiedi di definire questa fase, così diversa dalle altre che l’hanno preceduta, tituba. Poi azzarda: «È un amore maturo» e anche per questo, come per tutto il resto, c’è voluto coraggio: «La dote che preferisco, la qualità che negli altri ammiro davvero. Amo quelli che osano, forse perché a me osare è costato sofferenza». Una formula certa – premette – non c’è: «In amore non dipende mai solo dall’altro. Con il papà di Elena non ha funzionato, ma magari lui con un’altra funziona benissimo. Non siamo monoliti, sbagliamo, siamo condizionati dall’altro e dalle sue aspettative, non sempre facciamo la scelta giusta o siamo in grado davvero di interagire e di ascoltare il grido che viene dall’altra parte». Vittoria ha carattere: «Fabrizio mi chiama la goccia», ride, «perché dice che insisto fino a quando non si fa come dico io» e non perdona facilmente: «Sono Scorpione. Se mi fanno arrabbiare non sono poi così capace di rimuovere il torto o dimenticarlo. Se mi chiudo, quella chiusura può essere definitiva. Ma anche se ognuno di noi può essere a suo modo insopportabile, farmi arrabbiare non è facile». Se Vittoria è timida, lo maschera bene: «Più che parlare di me, anche da ragazza, preferivo ascoltare. Ero la confidente». Anche per questo crede di essersi scelta il mestiere giusto. Mettersi nei panni degli altri è una foggia naturale. E pazienza se gli amici non sono tutti nel suo mondo di riferimento: «Non ho molte amiche attrici. Della mia generazione, tra Cristiana Capotondi, Carolina Crescentini, Micaela Ramazzotti e Valeria Solarino, solo per citare le prime che mi vengono in mente, siamo tante e – credo – tutte capaci. C’è grande competizione e non essendo in America, i ruoli sono pochi. Ma so godere per un successo altrui». Qualcosa che la delude c’è. «Se mi sento presa in giro divento una belva. Do di matto. Mi metto sempre in gioco per cercare di capire, ma se l’altro se ne approfitta o se la generosità viene scambiata per stupidità mi arrabbio». Le è capitato: «E continua a capitarmi, soprattutto sul lavoro. Mi chiedo: “Ma perché per essere rispettato devi fare per forza lo stronzo, arrabbiarti o fare la voce grossa?”. È una cosa che mi fa impazzire, ma purtroppo è spesso così». Liberarsi dai condizionamenti è difficile: «È in qualche modo, per chi avverte il giudizio degli altri, un capitolo che non si chiude mai. Prima poteva terrorizzarmi o bloccarmi, oggi mi ci confronto». Se le chiedi di descriversi rimane a lungo in silenzio: «È difficile», dice e lo ripete più volte come a trovare una chiave. Poi prende fiato e sillaba: «Sono una persona che cerca, insegue e desidera di cambiare continuamente. Una persona che tende alla libertà». Si discute di MeToo e Vittoria rivendica la propria firma al manifesto Dissenso comune e un appoggio incondizionato ad Asia Argento: «È stata coraggiosa e credo che dopo la sua denuncia, un uomo in una posizione di potere che abbia l’intenzione di usarlo per soggiogare una ragazza non si senta più immune». Poi chiamata a ricordare, senza emozione dice: «Sono stata fortunata, non mi è mai accaduto di ricevere attenzioni indebite». L’unica molestia fu il successo. Un ospite inatteso. La fama avrebbe potuto renderla prigioniera, ma forse a salvarla fu l’istinto: «All’inizio, dopo il trionfo di Elisa di Rivombrosa, finii in un turbinìo pazzesco. Mi volevano per qualsiasi cosa, dall’inaugurazione del supermercato a quella del ristorante. In ballo, per me che avevo 22 anni, c’erano tantissimi soldi». Alla vigilia di un appuntamento, dopo aver detto sì a un agente che si occupava di eventi e aveva fatto opera di persuasione: «Perché dovresti rinunciare? Che ti importa?», Vittoria passò una notte insonne. Poi alzò il telefono e chiamò l’uomo: «Scusami, ma io non ce la faccio». Si riprese una parte di sé e da allora quella parte, senza prezzo né cartellino, non l’ha più persa di vista.