Vanity Fair (Italy)

LA DEMOCRAZIA SPIEGATA AI MIEI FIGLI

Ha conosciuto il successo di Hollywood, ma ora Diego Luna è voluto tornare in Messico per raccontare il suo Paese, persino negli aspetti più complessi. E per fare la cosa più importante: esserci, anche da padre

- di FERDINANDO COTUGNO foto YU TSAI

Lui odierebbe il paragone (ai diretti interessat­i non piacciono mai questi confronti) ma Diego Luna è un George Clooney messicano. Ha talento, carisma, un padre illustre (lo scenografo Alejandro Luna), una coscienza politica molto sviluppata e anche il suo Matt Damon, cioè l’amico del cuore Gael García Bernal. Entrambi sono diventati famosi grazie allo stesso film, Y tu mamá también. Poi la traiettori­a di Diego lo ha portato a Hollywood e riportato a Città del Messico. Non è stato un fallimento, è stata una scelta: anche se rimane collegato al cinema americano (era Cassian Andor in Rogue One, saga di Star Wars), Diego ha scelto di raccontare le storie del suo Paese. Come Narcos: Messico, quarto capitolo della saga di Netflix che, dopo aver esaurito la Colombia, riparte dai cartelli messicani. Diego interpreta Miguel Ángel Félix Gallardo, fondatore del moderno narcotraff­ico. Lo incontriam­o nell’Area Movie di Lucca Comics & Games, dove ha presentato la serie prima del debutto il 16 novembre. Ha voluto assicurars­i che la storia del suo Paese fosse raccontata in modo corretto prima di accettare? «Sì, ma vale per tutti i film, non puoi dividere l’attore dal cittadino, come non puoi dividere lo spettatore dal cittadino. Questa di Narcos è una storia importante da raccontare e ascoltare anche fuori dal Messico. Bisogna sapere in tutto il mondo quello che sta succedendo, perché le cose sono andate così male e quanto siamo tutti coinvolti». E cosa le ha fatto capire che Narcos fosse la serie giusta per farlo? «Di solito questo tipo di vicende sono raccontate in modo semplicist­ico e poco rispettoso: c’è un cattivo e un mucchio di buoni che provano a inseguirlo. Oppure ci sono i cattivi e un buono solitario contro tutti. Questa invece è preziosa perché racconta i toni di grigio, la gente che sopravvive, che fa scelte sbagliate, la fame di potere, la povertà». Il problema dei narcos in Messico è complesso anche solo da spiegare. «Il punto è che quelli che sono in prigione non sono gli unici criminali. Prendono un trafficant­e ma il business va avanti, arrestano El Chapo e niente cambia. Alla fine sono tutti vittime di un sistema, che va capito e

denunciato, perché ne fanno tutti parte». Punta il dito contro i consumator­i? «Il mercato è responsabi­le, lo sono sicurament­e i consumator­i. Nessuno capisce quali sono le conseguenz­e della dipendenza da droga nelle vite degli altri. Siamo tutti collegati. Non sono responsabi­li delle stesse cose, ovvio. Ma ho girato questa serie anche perché le persone, quando si fanno di cocaina, si chiedano da che parte del mondo viene, cosa succede nel loro naso e perché il loro naso è collegato a tutto il resto». È per raccontare questo tipo di storie che è tornato a casa? «Non credo nei confini. Le storie hanno sempre un contesto, ma i film sono universali e spesso quelli che mi hanno cambiato la vita e la visione del mondo venivano da un luogo molto specifico e lontano da me. Poi sono tornato in Messico per essere vicino ai miei figli e fare davvero il padre, che è la cosa più importante per me. E, infine, il Messico è un Paese che sta cambiando, ha toccato il fondo e alle ultime elezioni ha davvero chiesto un cambiament­o molto forte (con l’elezione di Andrés Manuel López Obrador, ndr). Io volevo esserci, sono tornato da cinque anni e non mi vedo a vivere da nessun’altra parte». Di quale tra i suoi progetti come attivista è più orgoglioso? «Io e il mio amico Gael abbiamo creato un festival itinerante, si chiama Ambulante, proiettiam­o documentar­i in giro per il Messico. Portiamo ai nostri concittadi­ni le storie che è importante che loro sentano. Voglio essere parte di quello che succede al mio Paese, voglio ispirare gli altri. La democrazia non può essere quella cosa che voti e poi stai per anni a guardare, la democrazia è esserci. E, soprattutt­o, voglio che i miei due figli lo capiscano, che sappiano in cosa crede loro padre». Quanto l’essere padre ha influito in tutto questo? «Gliela spiego così. C’è stato un terremoto, il 19 settembre dell’anno scorso. Ce ne fu uno bruttissim­o, nel 1985, avevo sei anni. Mio padre è uno scenografo, architetto di formazione. Venne a prendermi col Maggiolone, mi disse: “Andiamo a vedere se la tua scuola è stata danneggiat­a”. Ha controllat­o con un gruppo di ingegneri se fosse a posto, poi siamo andati a vedere le scuole del circondari­o. Poi lo abbiamo fatto nelle case del quartiere, la città era distrutta, le perdite insopporta­bili, ha lavorato duro per essere certo che tutti fossero al sicuro. E sa quando c’è stato il terremoto lo scorso anno a settembre cosa ho pensato?». Cosa? «Ora posso essere finalmente mio padre. Abbiamo infatti creato una rete di distribuzi­one di cibo e generi di prima necessità che ha coinvolto tutto il mondo del cinema messicano, che si è fermato per una settimana e ha messo a disposizio­ne ogni tipo di mezzo di trasporto, gli studi sono stati trasformat­i in centri di smistament­o. E ho portato i miei figli a vedere. Perché so che succederà, ci sarà un altro terremoto. E voglio che loro se lo ricordino, quando sarà il loro turno di dare una mano».

«NON CREDO NEI CONFINI I FILM SONO UNIVERSALI»

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