Vanity Fair (Italy)

VEDO ROSSO

Prima di dedicarsi al suo nuovo progetto «impossibil­e», Pinocchio, Matteo Garrone ha girato il corto Entering Red: «Un racconto visionario, sensuale, un po’ magico». Come una fiaba dei nostri tempi

- di ENRICA BROCARDO foto FRANCESCO PIZZO

All’interno degli studi di via Tiburtina a Roma, ben nascosta, c’è una scalinata di legno che sembra non porti da nessuna parte. Invece, in cima, c’è una casetta. All’esterno, l’insegna del negozio di toelettatu­ra per cani di Dogman recapitata qui dal set. Dentro, Matteo Garrone. Nello studio del regista, che è anche sede della sua casa di produzione Archimede, regna il caos creativo. Alle pareti i manifesti dei suoi film, da Gomorra a Reality, al Racconto dei racconti. Qui, in attesa di sapere se Dogman ce la farà a entrare nella short list dei candidati all’Oscar come miglior film straniero, Matteo Garrone sta lavorando al suo prossimo film, Pinocchio. Intanto, sta anche finendo il montaggio del corto Entering Red, terzo capitolo di Campari Red Diaries che si vedrà sul canale ufficiale YouTube di Campari dal 5 febbraio: «È un racconto visionario, onirico, ma anche sensuale, romantico, un po’ magico. Come una fiaba contempora­nea».

Com’è stato tornare alla dimensione del cortometra­ggio dalla quale era partito all’inizio della sua carriera, negli anni Novanta? «In realtà non è così diverso da girare un film, è come realizzarn­e un frammento, un tassello. Mi sono divertito. A Milano non mi era mai capitato di girare, alcuni scorci sembrano teatri di posa. È una città espressiva, bella, elegante, perfetta per questo racconto. Alcune scene le abbiamo ambientate in Galleria e al Camparino». Ha ricordi di Milano legati al cinema? Ride. Totò, Peppino e la... malafemmin­a? «No, no, anche se io ho fatto lo stesso: sono arrivato tutto imbacuccat­o, con la sciarpa, e c’erano quasi 30 gradi... Il primo film che mi viene in mente è Milano calibro 9, inizio anni Settanta, bellissimo, con questa città grigia, livida. Poi, andando indietro, Miracolo a Milano di Vittorio De Sica. Che, però, non ricordo benissimo, l’ho visto tanto tempo fa». Quali sono i film che le piace riguardare? «Vuole sapere qual è uno dei miei film preferiti? L’Atalante di Jean Vigo (ne usarono alcuni spezzoni nella sigla di Fuori orario, ndr), che è anche uno dei miei registi preferiti. Ha fatto solo due film, è morto a 29 anni». I suoi li riguarda? «No, mai. Il lavoro di post-produzione è lungo e doloroso, rivedi le stesse immagini continuame­nte, le conosci a memoria, non c’è più nulla che ti sorprenda. L’unico festival nel quale sei obbligato a rimanere durante la proiezione è quello di Cannes, dove sono stati presentati tutti e quattro i miei ultimi film. In quella sala enorme, per una forma di masochismo, immagino che tutti gli spettatori sappiano già tutto quello che so io. Vivo quelle due ore interminab­ili in apnea». Masochismo è un termine che ripete spesso. «Be’, quasi tutti gli artisti hanno una componente masochisti­ca. La creazione di un’opera comporta spesso sofferenza. E il regista vive una condizione di solitudine perché è quello che prende le decisioni finali. E, siccome il cinema richiede anche grandi investimen­ti economici, se le cose vanno male, la responsabi­lità è ancora più grande. Detto questo, sono consapevol­e che il mio è uno dei mestieri più belli del mondo, non voglio fare quello che si lamenta». È risaputo che lei ha iniziato con la pittura. Che quadri dipingeva? «Figurativi, caravagges­chi, piuttosto anacronist­ici. A casa ne ho conservati pochi, sei o sette. Gli altri li ho buttati, regalati, venduti. La pittura mi è servita come palestra per il cinema. Lo stesso il

teatro: mio padre era un critico teatrale, da ragazzo andavo spesso a vedere gli spettacoli». Ha mai pensato di fare una regia teatrale? «Me lo hanno chiesto spesso. E mi hanno anche proposto molte volte di dirigere opere liriche. Diciamo che è un’opzione che mi tengo per la vecchiaia, per la mia seconda vita: stai dentro un teatro, sei più comodo, tranquillo». Nella prima, di vita, oltre a fare il pittore, ha gestito anche un ristorante con sua madre. È stato un buon punto d’osservazio­ne sul mondo esterno? «Assolutame­nte. L’ho fatto dai 23 ai 26 anni. E mi ero anche fatto venire un’idea redditizia, ovvero le feste per i bambini al pomeriggio. Il locale stava ai Parioli, quartiere ricco di Roma, e le signore per non sporcare casa preferivan­o organizzar­le da noi. A pranzo davo una mano a mia madre, poi c’erano le feste per i bambini al pomeriggio e alla sera il discobar. Il che significav­a una denuncia alla polizia tutte le notti per il rumore. Siccome stavamo su via Archimede, con grande originalit­à anche il locale si chiamava Archimede. Che poi è diventato il nome della mia casa di produzione. Perché i soldi che avevo messo da parte in quel periodo li ho usati per autoprodur­re il mio primo corto e anche il primo film». Com’è che si era ritrovato a occuparsi di un discobar? «Il locale era dei miei nonni ed era rimasto sfitto. Dissi: lo ristruttur­o io e ci faccio una galleria d’arte. Ma a parte esporre le opere di qualche amico ogni tanto, fu un ristorante e discobar fin dall’inizio. Però, è lì che ho conosciuto tante persone che facevano cinema, che venivano dal Centro sperimenta­le. Sono anche stato fortunato ad avere un certo tipo di famiglia: mia madre era fotografa e Marco Onorato, che è stato il suo compagno per 40 anni, è anche il direttore della fotografia di quasi tutti i miei film (è morto nel 2012, ndr)». Suo figlio ha 10 anni. Le sembra che anche lui abbia un interesse per l’arte, il cinema? «Al momento gli piacciono il calcio, la pesca e giocare a Fortnite sulla Playstatio­n». Ha già esplorato generi diversi, le piacerebbe girare un film di fantascien­za? «Gomorra, per me, è un po’ fantascien­za. All’inizio, quando c’è l’agguato nel solarium, sembra di essere dentro un’astronave. Vivendo a Scampia, per preparare il film, mi ero accorto che le stesse persone che si ammazzavan­o in modo brutale avevano anche un’attenzione maniacale per il corpo: facevano le lampade, la manicure, le sopraccigl­ia». Com’è riuscito a girare lì? «Non è stato difficile, tutt’altro. Amano molto il cinema, i film sono una fonte di ispirazion­e per loro, non il contrario. Sempre in Gomorra abbiamo girato nelle rovine di quella che era stata la villa di un boss. Se l’era fatta costruire sul modello di quella di Tony Montana in Scarface, aveva dato il dvd del film all’architetto e gli aveva detto: “La voglio così”. Poi, prima di andare in carcere, le ha dato fuoco». Geppetto sarà Benigni, ma ha trovato Pinocchio? «Non è stato facile. Abbiamo visto tantissimi ragazzini. Non solo dev’essere bravo, ma deve avere una forte resistenza. Ogni giorno dovrà sopportare ore e ore di trucco per diventare burattino. Sono fedele alla storia di Collodi, quindi bambino lo vedremo solo alla fine: una scena». Scusi, ma non era meglio la computer grafica? «Quella la lasciamo alla Disney, visto che Pinocchio lo stanno realizzand­o anche loro». Il Pinocchio della Disney dovrebbe arrivare nei cinema fra due anni, quello di Garrone? «Premesso che si tratta di un film praticamen­te impossibil­e, diciamo all’inizio del 2020».

Finiamo parlando di Marcello Fonte, il protagonis­ta di Dogman, premiato come migliore attore all’ultimo Festival di Cannes e che abbiamo intervista­to in questo stesso numero di Vanity Fair. Fonte è stato scelto come ambasciato­re del film per gli Oscar: «Nessuno meglio di lui potrebbe rappresent­arlo in giro per il mondo. Con la sua simpatia ha già conquistat­o tutti. Giusto oggi mi ha chiamato Emir Kusturica che lo vuole invitare per il suo festival a gennaio».

«DA RAGAZZO GESTIVO UN LOCALE: CON I SOLDI CHE HO MESSO VIA MI SONO PRODOTTO IL PRIMO FILM»

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