Vanity Fair (Italy)

SONO MALATO DI CURIOSITË

Dall’alto della sua casa romana, lui studia il cielo e scruta le strade. Osserva il suo «autobus di anime», uomini e donne che lo hanno ispirato in 40 anni di cinema. E mentre prepara un nuovo film, riflette sulla propria vita, sui figli. E sull’amore che

- di SILVIA NUCINI foto CLAUDIO PORCARELLI

Vista da casa di Carlo Verdone, Roma, là sotto, splende così tanto da fare male agli occhi. E da questa specie di plancia di comando Verdone studia il cielo con il telescopio, fotografa le nuvole e scruta la città che, per più di 40 anni, gli ha regalato materiale umano che lui ha trasformat­o in personaggi. «Il mio autobus di anime», li chiama. Stanno qui con lei?, chiedo. «No, no, non c’è niente di più patetico di chi si attacca con disperazio­ne al passato. Ieri sentivo Tommy degli Who rifatta in un festival. La voce era diversa, i suoni meno anarchici, probabilme­nte suonavano pure meglio che nella prima versione. Poi, per quei casi dello shuffle, è partito il Tommy originale. E insomma: era proprio un’altra cosa, migliore. E anche io è come se avessi abbandonat­o la chitarra col distorsore e avessi preso la chitarra acustica. Continuo a suonare, ma in modo diverso». La nuova musica di Verdone è un film corale di cui non dice niente, se non che sarà regista e protagonis­ta, «in mezzo ad altri attori, ne ho bisogno». È stanco di essere il protagonis­ta. «No, però sento che è giusto risparmiar­e le forze e conservarl­e per dirigere gli altri. Non sono nemmeno stanco di recitare, di rappresent­are quello che vedo, ma la situazione di oggi è complessa da raccontare. Non trovo più, in giro, la poesia di un tempo: allora le strade e le piazze erano immensi teatri di umanità, oggi vedo tante solitudini. Le persone non riesco più nemmeno a vederle in faccia perché stanno tutti con la testa bassa, sul cellulare. E nemmeno guardare sui social mi aiuta a trovare ispirazion­e: i post e i commenti mi sembrano tutti omologati, anche negli insulti». Non succede forse a tutte le generazion­i di non riuscire, a un certo punto della vita, a comprender­e più il mondo? «Io penso che sia questo momento a essere particolar­mente complicato. Sono abbastanza lucido da capire cosa riesco e posso fare e cosa no nel mio lavoro. Sa, il talento è fondamenta­le, ma ci vuole anche la salute. Se sei sceneggiat­ore, regista, attore, segui l’edizione e poi anche quella cosa drammatica e più faticosa di ogni altra che è la promozione, devi essere davvero molto in forma. Ci vuole disciplina». Qual è la sua disciplina? «Andare a letto a una certa ora, svegliarsi a una certa ora, fare esercizio fisico, scrivere quasi tutti i giorni. Io sono un soldato con delle regole. È tutto molto noioso, me ne rendo conto. Infatti non vedo l’ora che arrivino i weekend». Come li passa? «In campagna, nella casa che fu dei miei genitori, e che io ho ricostruit­o il più fedelmente possibile. Lì mi occupo della biblioteca di mio padre, e della terra. Amo potare, rinforzare gli alberi che sono gli stessi alberi che c’erano quando i miei genitori la costruiron­o. Quella è per me la vera casa di famiglia». Parla spesso dei suoi genitori. «Se sono quello che sono, lo devo alla cultura e alla curiosità che mi ha stimolato mio padre e all’intuito di mia madre che, prima e sola, vide in me l’attore». Lei non lo vedeva? «Mi ritenevo totalmente inadeguato ad affrontare un pubblico. Ero un ragazzo simpatico, che faceva divertire gli altri, ma molto timido. Il contatto con la platea, la prima volta, è stato un evento traumatico, che mi ha creato un sacco di problemi. Però ho continuato perché mia madre sosteneva che avessi talento. Diceva: sono convinta che ce la farai». Quando ha capito che, come attore, le piaceva moltiplica­rsi?

«NON VOLEVO RIFARMI UNA FAMIGLIA E QUESTO HA MESSO IN DIFFICOLTÀ MOLTE DONNE CHE HO AVUTO»

«Da bambino sognavo di fare il burattinai­o, dare la voce a tanti personaggi. Credo ci fosse già tutto, in questo sogno che poi ho anche realizzato. Quando ero all’università mio fratello mise in piedi una piccola compagnia teatrale e cominciai a recitare con lui. Una sera mancavano tre attori, ma avevamo 40 paganti in sala e per salvare la situazione dissi: li faccio tutti e tre io. Fu un tale successo che quando quei tre con la bronchite tornarono, non li volle più nessuno». Come è riuscito a costruire i suoi personaggi? «Sono sempre stato, e continuo a essere, un gran curioso: credo sarei stato un bravo psicoanali­sta perché ho la presunzion­e di capire bene le persone, di coglierne i punti deboli e di forza con grande velocità. E, infatti, le poche volte in cui mi sono sbagliato a giudicare qualcuno ci sono rimasto malissimo. Ma credo ci sia un secondo ingredient­e che è stato importante nel creare i miei personaggi, ed è star bene con la gente: mi piace frequentar­e chiunque, anche le persone più lontane da me. Col passare del tempo, poi, è successa una cosa: che prima di recitare ho avuto necessità di provare sempre di meno, facevo sempre meno fatica, il corpo sapeva cosa fare da solo». E insomma sua madre ci vide lungo. Aver avuto dei genitori così attenti l’ha resa in qualche modo un padre a sua volta più attento? «Con il tempo, sì. Dico con il tempo perché per i primi anni ho un po’ trascurato la crescita dei miei figli. Poi mia moglie – anche se eravamo separati abbiamo sempre avuto un ottimo dialogo – mi ha detto: stai con loro, stacci di più. Ma starci di più non poteva voler dire camminare con me per Roma, perché venivamo continuame­nte fermati da persone che volevano l’autografo, e queste interruzio­ni davano molto fastidio ai miei bambini. Così ho trovato con loro una dimensione nel viaggio: viaggiare ha cambiato il nostro rapporto. Lo ha fondato». Della sua ex coppia si specifica sempre che siete separati, ma non divorziati. È importante? «È stata una richiesta che ci hanno fatto i figli quando erano piccoli. Ci dissero: non divorziate mai, fatelo per noi. Quella frase ci colpì molto. E l’abbiamo ascoltata». Ma questo impegno preso non ha condiziona­to la sua vita? «Non sarei comunque riuscito a rifarmi una famiglia: i miei figli erano loro. Questo chiarament­e ha messo in difficoltà molte delle donne che ho avuto: ho posto una condizione dura, addirittur­a insopporta­bile. Ma non avrei potuto mentire su una cosa così». Però adesso i suoi figli sono grandi. «E anche io. Non farei mai un figlio alla mia età, per lasciarlo sul più bello. E non avere energie per farlo crescere. Non vorrei fare solo il padre anagrafico». Non si è sentito solo in questa impossibil­ità di ricostruir­e che si è dato? «Ho condiviso spesso la mia situazione con donne che si erano date la stessa limitazion­e. E comunque, anche con loro, non è andata bene. Prima di tutto per colpa del lavoro. Io alla fine mi sono sposato con il mio pubblico, e questo non è facile da comprender­e per una persona che non fa un mestiere altrettant­o totalizzan­te. E poi le stupide gelosie per le colleghe». Poteva sempre fidanzarsi con un’attrice. «Per carità di Dio! Per parlare tutto il giorno di cinema e non incontrars­i mai a casa perché si hanno orari diversi? No, meglio di no. Amo diversific­are, però devo trovare una persona che non abbia paura del mio lavoro. Che poi, diciamolo, una poteva avere timori e gelosie vent’anni fa. Ma adesso... Con l’età te dai ’na calmata».

Sui set ci si innamora così facilmente? «Può capitare. Poteva capitare. Ma non è successo così spesso. Adesso sono molto protettivo con le mie attrici: cerco di valorizzar­le, dare loro consigli». Come vede, a questo punto della vita, le relazioni sentimenta­li? «In costante aggiorname­nto, come le applicazio­ni. Se non le aggiorni, finiscono: sono circondato, a parte alcuni rari casi, da coppie che prima o poi si lasceranno». In tutte le interviste dice di voler smettere di fumare, noto che non è ancora successo. «Sono un imbecille perché ho fatto smettere molti amici che ancora mi ringrazian­o». So che è un medico mancato. «Sono bravino: ho diagnostic­ato una Stevens-Johnson, che non è una cosa semplice» Non so nemmeno cosa sia. «Lasci stare, una cosa brutta: salta per aria il sistema immunitari­o, te ne vai in 48 ore se non prima». Ma ci ha provato a smettere? «Due volte, ho resistito per tre giorni orribili, poi sono svenuto. Il dottore m’ha detto: accendite ’na sigaretta, va’».

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COM’ERA 20 ANNI FA Verdone e Regina Orioli, 41 anni, in Gallo cedrone, 1998.

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