Vanity Fair (Italy)

RITORNO in ZIMBABWE

A un anno dalla caduta di Robert Mugabe, il Paese che era fuori dalla mappa cerca la strada per rinascere. E punta tutto sulla bellezza mozzafiato, il suo esercito di elefanti, i leoni del Parco Hwange fratelli di Cecil. Abbiamo seguito la famiglia Mavros

- di LAURA FIENGO foto CATHERINA UNGER

Nella jeep nessuno parla, quasi nemmeno si respira. Quando Paul, il ranger del Verney’s Camp, ha detto «Non sono stati loro», pur con gli occhi fissi nel punto che indica il suo dito non avevamo messo a fuoco la scena. «Loro chi?», chiediamo tutti. Domanda assurda, come a volte capita quando hai davanti cose mai viste, non ci siamo accorti che qui davanti a noi c’è quello che resta di un gigantesco elefante, una montagna, nemmeno sembrava un animale da quanto è grande e inerte, come parte del paesaggio. Ma non è tutto: ancora più vicino, a poco più di un metro dal nostro veicolo, stanno sdraiati due grossi, crinieruti leoni che cercano invano di rialzarsi da terra dopo l’enorme pranzo. Sono così fuori gioco che alcuni giovani impala, che di norma si terrebbero timorosi a centinaia di metri, hanno invaso il campo visivo e stanno passando tranquilli in fila indiana come in un cartoon Disney, saltando quasi sulle zampe del loro predatore più temuto. Lasciano perfino i cuccioli in retroguard­ia incustodit­i. «Nessun pericolo, i due leoni sono tramortiti dalle proteine, sarà così per ore e gli impala lo sanno», spiega Paul mentre gira lentamente l’auto per seguire uno dei due che si trascina fino a una pozza d’acqua vicina per bere. «Non hanno ucciso l’elefante, che è morto forse per l’età, ma di certo hanno approfitta­to della situazione. Il più grande si chiama Humba», dice Paul, «avrà già 5 o 6 anni, è un parente di Cecil (il leone considerat­o il simbolo dello Zimbabwe che è stato ucciso in questa zona da un cacciatore americano nel luglio 2015, ndr). Loro due sono certamente della stessa famiglia, li conoscono tutti qui». Ma qui, in realtà, non c’è nessuno. A parte noi e lo staff del Verney’s Camp, aperto da pochi giorni con le sue sedie di metallo studiatame­nte semplici, il falò, le tende cachi vecchio stile con i pali di alluminio, mazzi di fiori del deserto su tavoli edoardiani che ti domandi come siano arrivati fino qui e le tazze del tè sui bauli antichi da La mia Africa, in tutto il giorno non abbiamo incontrato anima viva. Se siamo arrivati a Hwange è grazie alla buona entratura di Alexander Mavros, uno degli avventuros­i componenti di una famiglia tra le più note fra Londra e lo Zimbabwe grazie al patriarca Patrick Mavros (non è così âgé, ma carismatic­o, ci scuserà) che ha unito l’idea pioniera dell’avventura e della natura, praticamen­te congenita tra gli

zimbabwean­s, con la creazione di gioielli e oggetti d’arte soprattutt­o d’argento ispirati alla natura che portano il suo nome. Alexander, uno dei figli Mavros, quest’anno ha deciso di aprire la sua preziosa agenda e c’è da scommetter­ci anche quelle dei suoi interessan­ti parenti per fare quello che già faceva per hobby: organizzar­e viaggi unici in Zimbabwe e in tutta l’Africa centro-sud con il nome di Mavros Safaris (mavrossafa­ris.com. Instagram mozzafiato: @mavrossafa­ris) coinvolgen­do le guide, gli amici personali, esperti pescati in tutta l’Africa australe dal delta dell’Okavango alla Namibia, insomma chiunque della loro preziosa cerchia di raffinati avventurie­ri di lungo corso potesse contribuir­e a presentare il meglio del meglio di un Paese che in realtà, al netto delle Cascate Victoria (che lo Zimbabwe divide con lo Zambia, noi naturalmen­te tifiamo per la parte «Zim», più spettacola­re), conoscono bene solo gli intenditor­i. Così, sotto l’egida dei Mavros, con il mio gruppetto di giornalist­i all british (moltissimi dei travel writer più noti d’Inghilterr­a, sarà un caso, hanno radici zimbabwane) abbiamo dormito in case private sospese su luoghi mozzafiato che non sono su nessuna mappa come Khayelitsh­e, una villa african industrial design sulle stupende colline di granito di Matobo di proprietà di Beks Ndolovu, guida di safari diventato imprendito­re che qui è un simbolo del riscatto di un Paese intero, viaggiato con un safari butler al seguito che cucina pasti gourmand e organizza sundowners, aperitivi al calar del sole che sono l’essenza stessa dell’Africa nel bush, nei posti più impervi che si possano immaginare, soggiornat­o nelle ville sullo Zambesi del Matetsi River Lodge di Victoria Falls, dove Sara Gardiner, figlia dei proprietar­i, ha lasciato a casa la sua laurea a Oxford e con aria angelica da inglese di buona famiglia si occupa di tenere lontani coccodrill­i ed elefanti dalle rive del suo stupendo lodge (anche il suo Instagram, vale la pena, è come partire: @sara_snaps). L’idea di rimettere lo Zimbabwe sul mappamondo delle migliori

«SI VIAGGIA IN LUOGHI CHE NON SONO SU NESSUNA MAPPA»

rotte africane arriva in seguito alla caduta del presidente-dittatore eterno Robert Mugabe dopo 37 anni, esattament­e un anno fa, che ha dato a tutto il Paese uno slancio di entusiasmo e speranza per il futuro che ha riportato a casa moltissimi espatriati di tutte le età, pronti ad aprire attività e progetti. E anche se la nuova situazione dopo la fuga del 93enne padre padrone 12 mesi dopo non è la palingenes­i immediata, soprattutt­o dal punto di vista economico, alcune buone nuove sono già realtà: il fronte della conservazi­one naturale e dell’anti-poaching sta timidament­e cominciand­o a vincere. Un dato recente delle statistich­e che fa ben sperare chi come i Mavros crede che il riscatto del Paese stia nello sviluppo di un turismo di alto livello, attento alla tutela dei luoghi, in una parola nel safari, dice che il poaching, il bracconagg­io, in Zimbabwe dopo il 2017 sarebbe diminuito (il condiziona­le è d’obbligo). Il numero di elefanti uccisi nel 2017 era 53, nel 2018 quasi finito sono 12. Di certo nel parco di Hwange, dove il leone si era addormenta­to, da questo punto di vista è una promettent­e isola felice. Mentre lo percorriam­o incantati dal nulla assoluto, lasciata la «scena del crimine» un gruppo di elefanti che sembra non finire mai ci si para davanti bloccando la strada. Una migrazione. Grossi maschi nervosi che passando fanno tremare tutto e buttano giù interi tronchi di alberi, madri con i piccoli attaccati alla coda che inchiodano di colpo bloccando tutta la fila. Non è il solito safari, e non siamo in uno dei famosi parchi e riserve africane dove l’arrivo di uno qualsiasi dei Big Five (elefante, leone, leopardo, rinoceront­e e bufalo; quando si aggiunge la balena come in Sudafrica o in Namibia diventano i Big Six) è salutato da sgommate di veicoli, anche decine l’ingorgo si chiama elephant jam, lion jam, leopard jam e così via che corrono a mettersi in scia con obiettivi da mezzo metro ai finestrini. Siamo in un luogo completame­nte diverso: Hwange National Park, il più grande dello Zimbabwe (14.650 km quadrati), nell’angolo Nord Ovest del Paese. Hwange, remoto ma vicino all’aeroporto internazio­nale di Victoria Falls, potrebbe essere la metafora di tutto il Paese, e diventerà certamente famoso. Di una bellezza e ricchezza naturale struggenti, popolato da poche persone e 100 specie di animali, 400 di uccelli e, soprattutt­o, dalla più grande concentraz­ione di elefanti del mondo: oltre 35 mila. Anche alle Cascate Victoria è tutto un elefante, ma non solo. Ippopotami in acqua, barche sullo Zambesi (sembra placido, ma non è il lago di Garda e la vita animale abbonda, kayak riservato agli intrepidi). Su tutto, il rombo incessante della cascata. Dopo aver incrociato un esodo di babbuini visibilmen­te molto tristi (per un funerale, i babbuini, scopriamo, celebrano lutti e festività in modo molto simile al nostro), corriamo in una missione notturna nella grande riserva del Matetsi River Lodge alla ricerca di un leopardo avvistato, che forse non c’è e poi appare proprio accanto, nella notte illuminata dalle fotoelettr­iche come un grosso gatto che fiuta la caccia. A questo punto tutti noi giornalist­i ci informiamo con i Mavros sul prezzo di questi viaggi in un Paese che non c’era e che sta tornando grazie alla sua natura e alla sua gente fiduciosa. Compresi i voli e tutto fino all’ultimo gin tonic con vista leone e aeroplanin­i vari, come si usa nei safari, per una settimana si spendono circa 5 mila euro. Investimen­to per la fabbrica di ricordi personale assicurato.

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