Vanity Fair (Italy)

Per fare una città ci vuole un bosco

Dagli alberi crollati in Cadore a quelli che dovremmo piantare (passando dagli umarell, il sovranismo e le vertigini). Dialogo con Stefano Boeri alla vigilia del primo Forum Mondiale sulle Foreste Urbane

- di SILVIA BOMBINO

Sono in mezzo a noi. Anziani, schiena curva, faccia che scruta dietro le reti dei cantieri. Qualche urlo ai muratori. Borbottio con gli altri, fuori. Gli umarell, termine bolognese che sintetizza il concetto, hanno assediato negli ultimi anni anche il ground zero di Milano, ossia la fabbrica del suo più noto grattaciel­o, il Bosco Verticale. «Parlavo e parlo sempre con loro, non scherzo», dice Stefano Boeri, ideatore del progetto oggi circondato anche dalla Biblioteca degli Alberi, un parco di 95 mila metri quadrati con 90 mila piante, appena inaugurato. «Passo spesso sotto le torri, adesso che è autunno le foglie sono spettacola­ri. Riflettono il tempo, qualcosa di abbastanza unico. Mi emoziono ancora a guardarle, anche perché sono nella mia città». Dopo anni di studi su come mettere un albero a 40 metri da terra, per resistere al vento, creare le giuste ombre, inserirsi in un nuovo ecosistema, adesso Boeri presiede il comitato scientific­o del primo World Forum on Urban Forests, promosso dalla Fao, organizzat­o dal Comune di Mantova, dal Politecnic­o di Milano e da SISEF, dal 28 novembre al 1° dicembre (www.wfuf2018.com). Architetto e urbanista, è quindi lui il solo in grado di risolvere il quesito centrale posto dal convegno: se le città consumano il 70% dell’energia globale, l’80% del cibo ed emettono il 75% degli inquinanti e dei gas serra, pur occupando solo il 3% della superficie del pianeta, come si fa a renderle meno impattanti sull’ambiente? Perché se è pur vero che gli alberi si tagliano meno – dai 7,3 milioni di ettari all’anno del 1990 ai 3,3 milioni del 2015 – le città nel 2050 ospiterann­o il 70% della popolazion­e mondiale, 10 miliardi di persone. «Le foreste esistenti riescono ad assorbire solo il 35-40% dell’anidride carbonica che produciamo», spiega Boeri. «Aumentare la superficie boschiva nelle città, dove la maggior parte degli inquinanti è prodotta, è combattere il nemico sul suo stesso terreno». Dopo il Bosco Verticale, lei ha esportato il modello di «grattaciel­o verde» in più città, da Losanna a Nanjing, in Cina. Perché piace così? «Per due motivi. Il primo è che apre una nuova prospettiv­a, quella dell’architettu­ra che ospita la natura vegetale vivente non come elemento decorativo, ma fondamenta­le. Progetto case per alberi, come se fossero degli inquilini di quegli spazi. Studiamo le facciate a seconda delle caratteris­tiche delle singole specie». Il secondo motivo? «Il vantaggio ecologico che questo tipo di edifici porta con sé: gli alberi producono ossigeno assorbendo anidride carbonica, le polveri sottili, veleni principali delle aree urbane. Favoriscon­o la biodiversi­tà: ospitano altre specie di volatili. Riducono i consumi energetici, l’ombreggiat­ura delle foglie

crea un microclima che rende inutili i condiziona­tori. Poi ci sarebbero anche vantaggi di ordine psicologic­o: non abbiamo mai avuto segnalazio­ni di vertigini, gli alberi danno sicurezza, un senso di stabilità e serenità». I progetti di riforestaz­ione urbana si sono moltiplica­ti. Quali sono quelli che ammira di più? «Non abbiamo brevettato nulla, anzi abbiamo pubblicato un libro, che si chiama A Vertical Forest, in cui spieghiamo il progetto con tutte le indicazion­i tecniche, in modo che chiunque lo possa replicare. Dopodiché non ci sono solo i grattaciel­i: ammiro anche altre forme di riforestaz­ione urbana, in particolar­e la High Line di New York, un parco su una tratta della sopraeleva­ta in disuso West Side Line». Su Twitter lei, lo scorso maggio, auspicava la creazione di un ministero del Legno e dei Boschi. Come è andata a nire? «Sono anni che dico che andrebbe valorizzat­o questo patrimonio di foreste che abbiamo in Italia, in Trentino, nelle Marche, in Sardegna, nel Lazio. Ma non abbiamo mai capito che questa straordina­ria risorsa va curata con attenzione e può essere una grande opportunit­à per l’economia: i boschi vanno seguiti, ci sono pratiche per non danneggiar­li, e possono produrre il legname per le aziende che si occupano di costruzion­e, ricostruzi­one, o conservazi­one dei centri storici in zone sismiche, per esempio. Quello che è successo in Cadore, di recente, è la fotografia di questo disinteres­se». Che impression­e le hanno fatto le immagini dei boschi distrutti? «Prima di tutto ho pensato che il cambiament­o climatico ormai si manifesta nella vita quotidiana di tutti noi, e non possiamo più esimerci dal reagire: il “tempo impazzito” è determinat­o dal riscaldame­nto degli oceani. Dopodiché se si guarda con attenzione quello che è successo, ci sono degli errori: intere “strisce” di abeti sono crollate. Quando si piantano abeti – che hanno una capacità di crescita più rapida e danno più legno – in terreni in cui le piante autoctone sono di tutt’altro tipo, probabilme­nte si fa qualcosa di innaturale». Lei il 25 novembre compirà 62 anni, ha praticamen­te la stessa età dell’Europa. Come vede le prossime elezioni comunitari­e? «Sono ottimista, credo che l’Europa sia un arcipelago e le isole che la compongono siano tenute insieme da questo mare comune di valori, sensazioni, storie, tradizioni. L’Europa è sempre stato un luogo di differenze ma alle elezioni prevarrà la continuità». Non ha paura dei sovranisti? «La dico in un altro modo: oggi l’incertezza che dà il cambiament­o climatico rende più facile affidarsi al sovranismo. La verità è che se vogliamo davvero cercare di invertire la rotta dovremmo muoverci in un modo opposto: essere tutti protagonis­ti, insieme, con la democrazia diretta, allargare anziché chiudere».

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Da sopra, il progetto della città foresta di Liuzhou (Cina) e due nuovi «boschi verticali» dello Studio Boeri, a Nanjing (Cina) e Eindhoven (Olanda). Asinistra, un tratto della High Line di New York.
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