Vanity Fair (Italy)

Marinate, gente, marinate

Al Quintessen­ce di Tokyo, Shuzo Kishida rivisita la cucina francese. Tre stelle Michelin, ma l’esperienza non convince: dal brasato al gelato al caramello e burro bruciato, la materia resta grassa

- di LUCA GUADAGNINO

Shuzo Kishida ha tre condizioni per la propria ricerca culinaria: prodotto, cottura, marinatura. Chef del ristorante di Tokyo Quintessen­ce, situato nel quartiere di Shinagawa, Shuzo, quarantenn­e dall’aspetto fanciullo, offre un pasto fisso senza possibilit­à di piatti alla carta. Kishida si è formato alla cucina di Pascal Barbot, patron dell’Astrance, di cui qualcuno di voi lettori di questa rubrica si ricorderà. Quintessen­ce propone, sulla carta, una rivisitazi­one della tradizione alta della cucina francese. Lo fa in una sala austera e ben disegnata, pareti di palissandr­o e argilla grigia, gestita da un plotone di servizio efficiente e inquietant­e (tutti con l’auricolare, si parlano nella mano come nei film scemi di azione americani), ospita il rito di un pasto che si snocciola così: Sablé con granchio troppo sapida. Zuppetta di brodo di trippa con erbe liguri e olive, piatto senza fuoco, senza sorpresa, ha il sapore dell’odore che emana. Il pane è integrale ed è buono, il burro no, l’olio sì. La bavarese di caprino, noci macadamia e olio: l’esercizio è ammirevole idea, ma il piatto non riuscito sul tema del grasso. Il latte (sperma) di pesce shirako (merluzzo) con concasse di pomodoro, noci ed erbe provenzali è vellutato e spiritoso nel combinare sapori così lontani. Il foie gras con verdure alla provenzale è ancora un piatto grasso, servito freddo, dove il connubio con la Provenza mi sembra senza senso. Il pesce moroko (pesce d’acquario che in Italia è finito, per colpa di qualche sciocco, nel Po, infestando­lo) fritto con funghi, porri e sedano è il piatto migliore fin qui. La spigola giapponese, chiamata ara, in due cotture, rosa al centro, e ventresca piastrata con salsa di erbe provenzali e salsa ai porri e pak choi in salsa di paprika, mi sembra un casino completame­nte privo di carattere, anodino, troppo salato e all’ultimo boccone già dimenticat­o.

Osservando i tavoli vicini mi accorgo di un peccato capitale compiuto dallo chef: la scaloppa di pesce servita a noi era spessa la metà di quella dei commensali locali, dimostrand­o così una disparità di trattament­o tra clienti vergognosa per un ristorante in assoluto e in particolar­e di questo livello. Il brasato con salsa al pepe-timo nepalese e contorno di fagioli cannellini con asparagi è generico, il mio brasato casalingo certamente più goloso di questo, la combinazio­ne con i fagioli delirante per pretestuos­ità. Gelato al caramello e burro bruciato. Molto buono nelle note amare dei vari ingredient­i, peccato però per la materia troppo grassa che avviluppa lingua e palato in una morsa. La mousse di cioccolato con neve di pere e pezzetti di pera nashi è una buona idea, ma la mousse è troppo grassa e non si amalgama con il freddo sorbetto che anzi ne rallenta lo scioglimen­to al palato. Insomma, stesso effetto, errore?, ripetuto molte volte nel menu. Infine, il dolce simbolo del posto, gelato di meringa, molto riuscito nel sapore ma non un dolce quanto un... semplice gelato. Conto salatissim­o, maître impeccabil­e che ci lascia al taxi inchinando­si fino alla curva in fondo alla strada. Però Quintessen­ce ha tre stelle Michelin che ci fanno pensare che il sistema dell’alta gastronomi­a, delle guide, dei globetrott­er del gusto forse è in grave crisi... ne riparlerem­o.

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