Vanity Fair (Italy)

Il colore del deserto

Dalla sabbia spunta una Stonehenge d’acciaio: quattro pilastri-punti cardinali firmati da Richard Serra. Ci sono anche Jean Nouvel e due ragazze di Gauguin (da 250 milioni di dollari) e fuochi beduini accesi nella notte per accogliere i viandanti. Siamo a

- di FERDINANDO COTUGNO foto CARLO RAMERINO

Se volate in Qatar, chiedete sempre un posto finestrino: vi offrirà una sintesi immediata delle contraddiz­ioni nel Paese geopolitic­amente più denso del mondo. I voli del mattino dall’Italia arrivano al tramonto, aggirando l’Arabia Saudita causa embargo. Sul deserto di questa penisola grande quanto l’Abruzzo non vedrete altro che piccoli insediamen­ti e fuochi sparsi. Lasciarli accesi come promessa di ospitalità per i viandanti è un’antica usanza beduina, una scena di secoli fa. Poi, all’improvviso, appare Doha, metropoli del deserto, lo skyline da un milione di luci accanto alle moschee, alle guardie a cammello e ai souq. Ci sono tanti motivi per venire qui: architettu­ra, arte, tradizioni. Un altro me lo suggerisce uno sconosciut­o fumatore di shisha nella terrazza dell’hotel St. Regis: «Se volete capire il futuro del mondo, venite in Qatar. Lo stiamo letteralme­nte costruendo dal nulla, e in contanti. Abbiamo una tradizione di ospitalità vecchia di secoli e l’orgoglio di mostrare ciò che stiamo facendo oggi». In nessun altro posto il contesto è importante quanto qui. Nel 2017 l’Arabia Saudita, con la quale ha il suo unico confine di terra, ha sottoposto il Qatar a un duro embargo per rovesciare l’orgogliosa e autonoma famiglia reale. Ma il Qatar ha retto con l’aiuto di Paesi amici come la Turchia. La prima cosa che scoprirete è che qui si parla molto degli Al Thani e che per capire il Qatar dovete conoscerne la famiglia reale. La faccia stilizzata dell’emiro è ovunque: palazzi, vetrine, parabrezza. Tamim bin Hamad Al Thani è uno dei più giovani sovrani al mondo, voleva fare il tennista, gli è rimasta la passione per lo sport: ha comprato il Paris St. Germain e ottenuto i Mondiali di calcio, così nel 2022 Doha avrà otto stadi e una rete metropolit­ana. Le altre figure da ricordare sono la madre e la sorella. La mamma, Mozah, è il volto illuminato del regime, la mente dietro l’idea che se Dubai è il parco giochi del Golfo, Doha ne sarebbe stata la biblioteca, centro di attrazione per artisti e architetti. A casa ha allevato una Peggy Guggenheim araba, la figlia al-Mayassa, definita da Art Review «la persona più potente nel mondo dell’arte». È un’instancabi­le collezioni­sta, c’è lei dietro l’acquisto record di Nafea faa ipoipo di Paul Gauguin («Quando ti sposi?», del 1892: due donne polinesian­e sedute, uno dei dipinti più famosi esistenti), a 250 milioni di dollari. Aggiungete il petrolio, il gas e il pil pro-capite più alto al mondo e avrete Doha, con la sua estetica a metà tra downtown Manhattan e il mondo arabo. La passeggiat­a più bella è la Corniche, lungo la baia occidental­e, Golfo a destra e luci ovunque. Se l’aveste percorsa negli anni ’80 avreste visto solo lo Sheraton, primo hotel ad aprire, con la forma delle piramidi di Blade Runner. Oggi la stessa inquadratu­ra è il sogno di ogni studente di architettu­ra. C’è il MIA, il Museo di Arte Islamica, uno degli edifici moderni più belli del Medio Oriente. Progetto di Ieoh Ming Pei, è un omaggio alla moschea Ibn Tulun del Cairo e all’Alhambra di Granada, ospita la più vasta collezione di arte islamica al mondo. È

difficile trovare un grande architetto che non si sia messo alla prova nel mescolare lo stile occidental­e e l’atmosfera mediorient­ale. Jean Nouvel ha firmato la Doha Tower, che ricorda un razzo decorato con il mashrabiya, il pattern dell’arte araba, e inaugurerà, a marzo, il Museo Nazionale del Qatar, creato per raccontarn­e il viaggio da nomadi a élite economica. Il posto ideale per capire tutto questo è la Biblioteca Nazionale firmata da Rem Koolhaas, dove l’emiro in persona ha posato il milionesim­o volume. La forma ricorda quella di un libro poggiato in una pausa dalla lettura: entrate e sfogliate i testi in arabo e in inglese, i tomi più pregiati sono al piano interrato. Potreste trovarvi nel mezzo di una gara di robotica, dove ragazzi e ragazze in abiti tradiziona­li, mescolati a compagni in felpe di Star Wars, attivano i robot costruiti a casa. «Una nazione guidata dalla conoscenza», dice una scritta. Il Qatar attira artisti con borse di studio e residenze. Federica Visani, italiana, ha avuto un finanziame­nto per sviluppare i suoi progetti alla Fire Station, centro di arte contempora­nea aperto in una vecchia stazione dei pompieri: «Questo è un Paese piccolo e pieno di opportunit­à», spiega, presentand­omi la sua terra promessa araba, «consuma tanto e non produce niente, c’è molto da fare per chi ha voglia». Il Qatar è proteso verso il futuro, ma è fortemente attaccato alle sue tradizioni. Nel Souq Waqif, il grande mercato, chiedete di Saad Ismail Al Jassem, ultimo testimone di quando qui erano tutti pescatori di perle. Una vita dura e pericolosa, cinquanta immersioni al giorno, una pietra alla caviglia per andare giù. Ascoltate le storie, guardate le foto in cui sembra un pugile americano anni ’70 e testate la forza delle sue braccia. I datteri migliori li vendono i giordani, il miele dei mercanti yemeniti è indimentic­abile. C’è un angolo dedicato alla grande passione locale, la falconeria. Interrogat­e i commercian­ti del souq sui costi (dai 3 mila dollari in su) e curiosate (con discrezion­e) al Falcon Hospital. La sala d’aspetto con padroni e falchi sarà una delle scene che varranno il viaggio. I qatarini sono diventati gente di città, ma ogni volta che possono tornano da dove sono partiti: il deserto. Al Enna, la gita sulla sabbia, è la più autentica delle tradizioni locali. Quello a sud è morbido, sinuoso, dune fatte per giocare con un 4x4 (nel tour Francoross­o avrete la vostra dose di salti, con un ex pilota di rally palestines­e dall’insospetta­to talento nelle playlist pop), quello a nord è austero e roccioso. Qui Richard Serra, uno dei più importanti scultori al mondo, ha costruito una monumental­e opera di land art, quattro monoliti di acciaio dal titolo East-West/West-East. Quando al-Mayassa, committent­e dell’opera, lo incontrò per la prima volta, gli disse: «Dovrebbe costruire qualcosa nel paesaggio». «Quale paesaggio?», chiese. «Il deserto». «Non mi interessa il deserto», rispose Serra. Poi, perché lui è un artista e lei la sorella di un emiro, è andato a dare un’occhiata e ha scoperto che il deserto interessav­a anche a lui. Ha poi detto al Telegraph che è la cosa più soddisface­nte che abbia mai fatto: «È l’opera a darti un punto di riferiment­o, tiene il contesto insieme, lo rende afferrabil­e. Ora è un posto, prima non lo era». A questo servono gli artisti.

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