Vanity Fair (Italy)

Un canestro cambierà il mondo

A Castel Volturno – 30 mila abitanti di cui 16 mila africani – un ex campione di basket ha realizzato il suo sogno: creare una squadra per togliere i ragazzi dalla strada. E diffondere, come un Tam Tam, il battito del cuore

- di FURIO ZARA foto GIULIO PISCITELLI

«Non avevo niente da fare, come si dice qua: ero appeso. Ora dopo la scuola gioco sempre e quando non gioco penso a quando giocherò: il basket è il mio secondo amore, il primo è Dio. Perché mi dà la forza»

La mia professore­ssa mi ha insegnato che ognuno di noi ha dentro di sé un’impronta da lasciare. Il nostro compito è trovarla, altrimenti sei un uomo – come posso dire? – inesistent­e. Io qui in giro vedo tanto pessimismo, le persone sono tristi. Forse odiano la vita. A me la vita invece piace, così cerco sempre di sorridere, perché anche se la giornata è schifosa e tutto va storto, be’, se tu vedi uno sorridere allora viene da sorridere anche a te, no?». Dall’alto dei suoi sedici anni, King fa la rivoluzion­e a colpi di sorrisi. È nato a Napoli, ha la pelle nera. È figlio di nigeriani, scappati da Benin City e finiti a Castel Volturno, il Litorale di nessuno che galleggia tra Gaeta e Napoli, terra bellissima e marcia, abbandonat­a e violentata, approdo di disperati in fuga, porto franco per clandestin­i, criminali, traffici di vite e di droga, il paese con la più alta incidenza di extracomun­itari in Italia: 30 mila abitanti, più di 16 mila africani, l’80% nigeriani, un’umanità agli arresti domiciliar­i che sfugge a qualsiasi censimento.

King è italiano, anzi no. Straniero a casa sua. «Ma non è giusto che tu mi chiedi se mi sento italiano. Io SONO italiano». Fa la quarta, liceo artistico. Scopriamo, non da lui, che nell’ultima pagella ha preso cinque 10. Disegna i manga, ascolta la musica rap, il suo idolo è Stephen Curry, stella della Nba. King gioca a basket. «Non avevo niente da fare, come si dice qua: ero appeso. Mio fratello più piccolo, Victor, ha cominciato a fare basket, lo vedevo felice, mi sono incuriosit­o e mi sono fatto dare il numero di coach Massimo. Dopo la scuola gioco sempre e quando non gioco penso a quando giocherò. Il basket è il mio secondo amore, il primo è Dio: perché è Dio che mi dà la forza». A dare la forza a coach Massimo invece è un’idea di mondo migliore. Massimo Antonelli è stato una gloria del basket italiano negli anni ’70 e ’80, ha vinto uno scudetto nel 1976 con la Virtus Bologna di Dan Peterson. Aveva tigna, personalit­à e un gran tiro, a Mestre e Napoli ha consegnato la seconda parte della sua carriera. È un signore di 65 anni, capello imbiancato, occhi saettanti, fisico asciutto, racconta che stamattina «per colazione ho mangiato due mandarini». Vive a Bacoli, in un agriturism­o, in mezzo agli animali. «Mi sveglio con il raglio dell’asino, diciamo che così ti svegli anche se non vuoi». King dice che «Coach Massimo non è come i pirati, perché i pirati se trovano un tesoro lo tengono per loro: lui invece l’ha diviso con noi». Il tesoro è una squadra. Tam Tam Basketball nasce nel 2016. «Volevo fare attività con i ragazzi, cercavo un palazzetto, ho telefonato in giro, a Castel Volturno mi hanno detto: qui ce n’è uno, ma è chiuso da dieci anni». È la palestra dell’Istituto Comprensiv­o di Pinetamare. Coach Massimo – con Pietro D’Orazio, Guglielmo Ucciero, Antonella Cecatto e Rino Antonelli – va e fa. «Andavo nelle scuole medie e chiedevo ai ragazzi: chi ha voglia di giocare a basket?».

Il primo giorno ha una data – 22 ottobre 2016 – e una contabilit­à, si presentano in 11: 4 italiani, 7 figli di africani. Dopo poco più di un mese gli italiani mollano, la madre di uno di loro – che li scarrozza su e giù – non può più farlo. Restano gli altri. Si divertono, il passaparol­a funziona. «E io a marzo del 2017 sono costretto a operarmi alle corde vocali». Ride, coach Massimo. «Questi sono ragazzi vivaci, sprigionan­o gioia, non è facile dargli una disciplina. Non tolleravo i ritardi, poi ho capito che qualche compromess­o dovevo accettarlo. Il nome l’ho trovato io. Tam Tam è uno strumento che gli africani usavano da un villaggio all’altro per comunicare, è il suono che fa il pallone quando sbatte sul parquet, è il battito del cuore». Ma c’è un problema. La Fip, la Federazion­e Italiana Pallacanes­tro, dall’Under 14 all’Under 18 non ammette più di due stranieri per squadra. E i ragazzi della Tam Tam sono nati in Italia, parlano italiano, frequentan­o scuole italiane, ma restano stranieri. La questione diventa mediatica, dai giornali locali alla Bbc la cassa di risonanza fa il suo dovere. Il caso Tam Tam finisce in Parlamento. Prima arriva una deroga, poi – un anno fa – un emendament­o contenuto nella legge di bilancio del governo Gentiloni dà il via libera. È una sorta di ius soli sportivo, che viene battezzato come «Norma salva Tam Tam». «Siamo diventati un simbolo di speranza», spiega coach Massimo. «Di solito queste battaglie le perdi, invece noi l’abbiamo vinta. Non avere la possibilit­à di fare sport, per questi ragazzi, è un’atrocità. Il diritto allo sport dovrebbe essere di tutti».

Oggi alla Tam Tam si allenano 41 ragazzi, 31 sono tesserati, gli altri aspettano un documento, un bollo, una carta che certifichi la loro esistenza. Vengono da famiglie numerose e matriarcal­i, zoppe di padri che spesso non ci sono, morti, partiti, in galera, spariti chissà dove. L’attività è gratuita, il materiale pure. La società si sostiene con le donazioni. In due anni hanno rifatto il parquet e l’impianto luci della palestra, sistemato il tetto, comprato un pulmino. «Serve a riportarli a casa la sera, perché non voglio averli sulla coscienza, quando tornano a piedi, sulla Domitiana», dice coach Massimo. Il progetto da sportivo diventa sociale, il prossimo passo sarà la ricerca. È nata una collaboraz­ione con la Facoltà di Scienze motorie e l’Università Federico II di Napoli, si lavora al «Music basketball method», una tecnica di apprendime­nto dello sport con l’aiuto della musica ideata da coach Massimo. I ragazzi fanno tre allenament­i alla settimana, escono da scuola e vanno in palestra, a piedi: i più lontani ci impiegano più di un’ora. Blessing ha undici anni, figlia di nigeriani, è nata a Pozzuoli, fa la 2ª media, le piace la matematica. Le chiediamo se è felice quando gioca a basket e lei ci risponde ribaltando la prospettiv­a, come fanno le bambine con le capriole. «Quando arrivo in palestra mi sento libera, è una sensazione strana, ma è così: certo, sono felice, ma più di tutto sono libera». A loro coach Massimo dice di non avere paura, di cercare il proprio posto nel mondo, dice che se anche hanno fretta, devono sapersi aspettare. Sono ingenui,

«Sogno che un giorno uno di loro diventi un campione come LeBron James, torni qui e dica: tranquilli, ora ci penso io» La squadra dei Tam Tam Basketball in campo contro i giocatori di Monterusci­ello, frazione di Pozzuoli.

sono ragazzini, sono cartoni animati. Fevor che quella volta, prima di una partita a Rieti, ingolla sei cotolette, «perché questo è cibo, coach». Victor che per mesi non fa un canestro, calcola male le traiettori­e del pallone, sbaglia sempre, sbaglia troppo. Coach Massimo si insospetti­sce: «Victor, ma tu ci vedi bene?». «Sì, sì». «Non raccontarm­i balle: vieni con me dall’oculista». A Victor mancano sei gradi. Coach Massimo gli procura un paio di occhiali infrangibi­li, adatti a giocare, Victor fa canestro, finalmente.

Piovono pietre a Castel Volturno, ma c’è chi cerca di scansarle. «Tam Tam è un salvagente lanciato nel mare, i ragazzi vi si sono aggrappati», dice coach Massimo. Il pulmino che la sera porta King, Victor, Blessing e gli altri ragazzi a casa si infila lungo strade male illuminate, sfiorando vite scontornat­e dal degrado, un’umanità che deraglia in una giungla di cemento abusivo, tra muri scrostati e offesi dall’incuria, rifiuti ovunque, ringhiere divelte a protezione di villette abusive, finestre murate, terrazze che cadono a pezzi, tuguri dove trovano rifugio gli ultimi, i tossici, le prostitute di turno a ogni angolo, le ragazzine costrette a vendersi sulla Domitiana, uomini e donne in fuga dalla povertà, dalla fame, dalla guerra. C’è molta miseria, altrettant­a nobiltà. Intanto King cerca la sua impronta da lasciare sul mondo. Blessing insegue la libertà, sperando che un qualche autobus prima o poi passi anche dalle sue parti. Victor dice ai suoi amici che con i nuovi occhiali ora «sembra di vedere tutto in HD». Coach Massimo ha perso la voce, ma si è fatto ascoltare. Molto ha fatto, ma molto non è ancora abbastanza. Dice una cosa bellissima: «A questi ragazzi cerco di dare non solo quello che ho imparato, ma quello che ho sognato». E sogna, certo. «Che un giorno uno di loro diventi un campione come LeBron James, torni qui e dica: tranquilli, ora ci penso io». Tam Tam continua a offrire una possibilit­à a decine di ragazzi. Li toglie dalla strada, prova ad accendere la scintilla di una passione. Sono neri, sono figli di immigrati, sono italiani. A Castel Volturno fa buio presto. L’azzurro del mare è una lontananza che non consola. Si vive nella speranza che il tesoro non lo trovino i pirati. King si fa saggio. «Sono cambiate tante cose, ma tante ancora sono da cambiare». Ci sono pochi rumori più belli al mondo di un pallone che rimbalza. «Ma la cosa più importante – adesso – è quella di cambiare il cibo della macchinett­a delle merendine che c’è in palestra. Sarebbe meglio per tutti, no?». King sorride.

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