Vanity Fair (Italy)

VAN GOGH SONO IO

MODO PER PARLARE D’ARTE»

- di MATTIA CARZANIGA foto FABRICE DALL’ANESE

JULIAN SCHNABEL

Per dirigere il suo film sul grande pittore, l’artista e regista americano ha scelto di dimenticar­e tutto ciò che sapeva di lui, e «fargli dire quello che volevo». Perché al cinema, spiega, più che le risposte contano le domande

BIOGRAFICO

Julian Schnabel, 67 anni, qui fotografat­o al Marrakech Internatio­nal Film Festival, ha diretto Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità, al cinema dal 3 gennaio. Il protagonis­ta, Willem Dafoe, ha vinto la Coppa Volpi a Venezia ed è candidato ai Golden Globe.

Julian Schnabel, pigiama viola e vestaglia a righe bianche e verdi, mi chiede da dove vengo. Rispondo Milano, e lui si mette a ricordare: «Ci ho vissuto per un po’, ero giovane e non avevo i soldi neanche per pagarmi il biglietto del tram. Entravo nelle salumerie e sentivo che tutti chiedevano “Mozzarella! Mozzarella!”, io non sapevo che cosa fosse, vedevo solo che costava troppo. La prima vera mozzarella della mia vita l’ho mangiata poi a Venezia ventidue anni fa, quando ci presentai il mio primo film, Basquiat. Non me la posso dimenticar­e». A Venezia il 67enne regista e pittore è tornato quest’anno per Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità, al cinema dal 3 gennaio, biografia libera e pittorica che s’è guadagnata la Coppa Volpi per l’interpreta­zione del suo protagonis­ta Willem Dafoe, anche lui più immaginifi­co che imitativo, per quanto assai somigliant­e. Per la stessa parte, adesso Dafoe è anche candidato ai Golden Globe del prossimo 6 gennaio come miglior attore in un film drammatico. Ho letto che ha scelto di raccontare Van Gogh perché condividet­e la stessa visione dell’arte: ovvero? «Lui diceva che l’essenza della natura è la bellezza. È vero? Non lo so, anche se è un punto di vista altamente condivisib­ile. Sono più d’accordo con un’altra sua frase: io sono quello che dipingo. Ecco, a questo credo profondame­nte». Ricorda la prima volta davanti a un suo quadro? «Sarà stato attorno ai vent’anni. Ovviamente conoscevo la sua opera anche prima, ma i quadri non li devi vedere sui libri: devi sentirli sulla pelle. A folgorarmi è stato uno dei suoi alberi blu». Che cosa aveva di così rivoluzion­ario? «La tradizione prevede che i pittori copino i maestri che li hanno preceduti, lo fanno ancora oggi gli studenti delle accademie. Lui no. Lui copiava i quadri degli amici, quelli che gli capitavano davanti agli occhi, e persino le sue stesse tele. In questo senso, è stato il primo pittore postmodern­o. Per dire, ha firmato cinque versioni del ritratto di Madame Ginoux del suo amico Gauguin. Oppure trovava la copertina di un giornale dedicata al Giappone e, visto che quel Paese lo affascinav­a moltissimo, la rifaceva uguale. Se è vero che alla base dell’invenzione c’è la necessità, allora Vincent è l’esempio perfetto. Quando non hai una modella, dipingi quello che ti trovi di fronte: una finestra, la tua stessa faccia. Se non hai davanti i girasoli, li rubi a un’altra opera. Mi ricorda Caravaggio, che ha passato gran parte della vita agli arresti domiciliar­i e si è dovuto ingegnare come ha potuto: per questo dava alle sante i volti delle prostitute». Ha scoperto qualcosa di Van Gogh che non sapeva? «Il mio approccio è andato nella direzione opposta: è un pittore così noto e documentat­o che ho voluto distrugger­e tutto ciò che già conosciamo di lui e fargli dire quello che volevo io, per esempio che ama Shakespear­e perché è il più misterioso dei poeti. Credo in un cinema che pone domande: sono più interessan­ti delle risposte». Lei ha detto che pittori si nasce. «Questo è sicuro. Anche se il mio primo disegno io l’ho fatto solo a 4 anni». Qual era il soggetto? «All’epoca, su Life Magazine, venivano pubblicizz­ate le scuole d’arte come quella di Westport, in Connecticu­t, con l’immagine della testa di un cavallo che spuntava dalla stalla di una scuderia. Sotto c’era scritto: “Se tuo figlio riesce a riprodurla, forse è un artista”. Credo di aver disegnato tantissime teste di cavallo da bambino. Poi sono passato a esercizi del tipo: ritrai un uomo sotto la pioggia. Che

poi uno tutte le volte dovrebbe chiedersi: ma perché quel tizio deve stare sotto la pioggia, non può prendersi un ombrello? Comunque, sono andato avanti per un po’ con le riproduzio­ni in serie degli stessi soggetti e solo più avanti, direi nel 1975, ho dipinto quella che considero la mia prima vera opera d’arte: Jack the Bellboy, se la cerca su Google la trova. È stato quello il momento in cui ho capito di aver finalmente realizzato un oggetto artistico». Negli ultimi anni, l’arte contempora­nea sembra diventata un interesse di massa. «Si può dire così. Sarà anche colpa o merito di Internet, è lì che adesso un sacco di gente scopre l’arte. Si condividon­o immagini di quadri su Instagram, di cui a me non frega nulla, ma è comunque un modo per parlarne. In realtà penso che si tratti più di un mezzo per mettere in contatto le persone che di un sistema per diffondere l’arte. È che io amo la materia, è lì che si cela il significat­o di un’opera. Anche per questo un prodotto artistico non è la stessa cosa, sullo schermo di un computer o di uno smartphone». Anche il mercato dell’arte è cambiato? «Come dice una battuta del capolavoro di Jean Renoir, La regola del gioco: “Se a questo mondo esiste una cosa terribile, è che ognuno ha le sue ragioni”. Perciò oggi per un artista è molto più difficile mantenere la propria autonomia: ci sono in ballo troppi fattori, e ciascuno ha una sua motivazion­e precisa. Quando un’opera riesce a comunicare direttamen­te qualcosa a qualcuno, è un miracolo». Che cosa la ispira? «Le donne (fa una lunga pausa). Non solo quelle con cui sono stato. Mia madre è stata fondamenta­le per me, mi ha insegnato a prestare attenzione all’arte. Ingrid Sischy (giornalist­a, critico d’arte e Internatio­nal Editor di Vanity Fair, morta nel 2015, ndr) è stata un’amica carissima, mi ha influenzat­o molto. E così Hélène Rochas. E Laurie Anderson, assieme a suo marito Lou Reed, che pure non c’è più. Oggi m’ispira la mia fidanzata Louise (Kugelberg, ndr). Ha lavorato alla sceneggiat­ura di Van Gogh, ha collaborat­o con me a ogni aspetto del film. L’abbiamo costruito insieme». I suoi amori passati sono stati spesso oggetti di gossip: crede che questo abbia distratto il pubblico dal suo lavoro? «Lo trovo sempliceme­nte molto offensivo. Non leggo nulla di quello che scrivono sul mio conto». Ha visto The Square di Ruben Östlund, Palma d’oro al Festival di Cannes dell’anno scorso? Dominic West interpreta­va il ruolo di un pittore in pigiama e vestaglia che pareva ricalcato su di lei. «Quel personaggi­o era un cliché: io non mi comportere­i mai in quel modo. Mi è piaciuta molto la scena dell’uomo che imita la scimmia: gli spettatori che assistono alla performanc­e prima lo temono, poi si trasforman­o in bestie anche loro. Per il resto, quel film l’ho trovato una perdita di tempo». Sembra aver passato i geni artistici ai suoi figli. «Vito è un mercante d’arte, ed è molto bravo nel suo lavoro. Lola è una pittrice e una filmmaker, Cy cura mostre, il suo gemello Olmo ha appena prodotto un film, Stella fa l’attrice». Essere un artista nell’era del digitale è più facile o più difficile? «Non ne ho idea. L’importante è procedere secondo la massima di Tom Waits: “La vita è solo un sentiero illuminato dalla luce di coloro che hai amato”. C’è qualcos’altro che vuole sapere da me?». Direi che questo è un bel finale per un’intervista. Mi permetta solo una curiosità: quanti pigiami ha in valigia? «Non così tanti… Quattro, forse. È sempre meglio che andare in giro in giacca e cravatta». Questo che indossa è bellissimo. «Glielo regalerei volentieri. Ma temo le stia grande».

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