D’AMORE E DI GUERRA
Raccontare l’umanità che c’è dietro ogni conflitto: questo è, da sempre, alla base del lavoro della fotoreporter statunitense, vincitrice di un Pulitzer, Lynsey Addario. Ora alcuni dei suoi scatti più belli, dall’Afghanistan alla Siria, al Darfur, sono stati raccolti in un volume, una ricerca dell’«intimità» dove il fatto di essere donna l’ha, più spesso, aiutata (nonostante alcuni brutti episodi). Intanto lei ha deciso di correre qualche rischio in meno perché a casa c’è qualcuno che le fa dire: «Voglio essere sicura di tornare da lui»
Come a volte succede nelle storie di grande giornalismo, la fortuna ha avuto un ruolo importante nella foto che apre questo servizio, le due donne in burqa blu sotto il cielo dell’Afghanistan. Non solo per la fotografa che le ha incontrate per caso, Lynsey Addario, ma anche per una delle due protagoniste di questo scatto. Era il 2009, Addario aveva appena vinto il Pulitzer con un reportage sui talebani ed era tornata in Afghanistan per un lungo lavoro sulla mortalità materna, in uno dei Paesi al mondo dov’è tuttora più pericoloso partorire. «Ho visto queste due donne sul fianco della montagna, senza un uomo ad accompagnarle», racconta al telefono dagli Stati Uniti. «Viaggiavo con una dottoressa neozelandese di origini afghane, ci siamo rese conto che qualcosa non andava. Una delle due donne stava per partorire, era terrorizzata all’idea di perdere la bambina e per questo motivo si era messa alla guida per raggiungere un ospedale. L’altra era sua madre. L’auto si era rotta e in quel momento le abbiamo trovate». Noor Nisa, 18 anni, rischiava di andare in travaglio da sola, su quella montagna. «Le ho chiesto se volesse essere accompagnata, ma c’era bisogno del permesso del marito. La dottoressa che era con me è andata a cercarlo, lo ha trovato abbastanza in fretta perché su quella montagna c’è una sola strada, è tornata con lui e abbiamo accompagnato tutta la famiglia in ospedale, dove è nata la bimba». Nell’attesa, ecco la foto. Era l’anno in cui Obama rafforzava le forze militari impegnate in Afghanistan, ci furono le elezioni presidenziali e fu uno dei frangenti più duri e violenti della guerra. Ma era una storia che si poteva anche raccontare, appunto, con un’adolescente in viaggio per diventare madre.
Questa e tutte le altre foto in queste pagine si trovano nel volume Of Love & War (Penguin Random House), la prima raccolta di foto di Addario, da qualche mese uscita nell’edizione americana.
È strano che questa antologia sia stata messa insieme solo ora: da tempo Addario, 45 anni, è una delle fotogiornaliste più importanti e pubblicate al mondo. «Ho aspettato tanto perché sono critica con me stessa, mi sembra sempre di non aver fatto abbastanza». Darfur, Libia, Siria, Afghanistan, Iraq, Myanmar: c’è la Storia recente del genere umano nelle foto di questa donna cresciuta in una famiglia hippie del Connecticut da una coppia di parrucchieri italo-americani. Ha scelto di citare amore e guerra nel titolo: curiosamente anche la sua autobiografia è stata pubblicata in Italia (da Rizzoli, 2015) col titolo di In amore e in guerra, anche se quello originale era un più asciutto It’s What I Do («Questo è ciò che faccio»). Da tempo i diritti sono opzionati per un film, tra le attrici avvicinate al ruolo di Lynsey ci sono Jennifer Lawrence e Scarlett Johansson. «Non volevo fare la reporter di guerra», spiega Lynsey. «Ero partita per raccontare la gente, i viaggi, le culture, avere una macchina fotografica in mano mi ha dato una scusa per entrare nelle vite delle persone». In un certo senso è stata la guerra a trovare lei. Dieci giorni dopo l’11 settembre 2001, quando era chiaro che gli americani avrebbero bombardato l’Afghanistan, lei era già al confine col Pakistan pronta a entrare: conosceva bene il Paese, lo aveva già girato e capito negli anni precedenti, quando abitava in India. Non era però stata la guerra in senso stretto a spingerla verso Kandahar. «Non penso di avere alcun talento nel raccontare i conflitti, quello che mi interessa sono le persone, gli estremi della generosità, delle emozioni umane e della bellezza che si possono trovare in una zona di guerra».
Raccontare le specificità di un conflitto, cosa lo renda diverso da quelli raccontati in precedenza, è una delle parti più complesse del suo lavoro. Per farlo ha scelto una strada che rende le sue foto diverse da quelle di tutti gli altri: l’intimità. «Per me la parte importante del lavoro è umanizzare, collegare le persone a un livello profondo, suscitare negli americani, ai quali di solito non interessa nulla se non l’America, empatia per posti così lontani». E da questo punto di vista non è peggiorato nulla da quando c’è Trump: «Gli americani sono sempre stati così, distratti e isolati». Un matrimonio durante la guerra civile in Siria, una ragazza incinta in Afghanistan o in Darfur, una bambina Rohingya che studia come una qualsiasi scolara in ogni angolo del mondo: storie di persone. «Una cosa che non smette di sorprendermi è quanto possano essere aperte e generose, quanto sia facile entrare, da estranea, nei momenti più intimi: una nascita, una morte, un funerale». Essere donna al fronte è stato a volte uno svantaggio, altre invece una chiave da infilare nelle porte più chiuse del mondo: «In società così tradizionaliste è più facile far entrare una donna in casa propria. Ma quello non basta: il passaggio successivo è fargli sempre sentire che il reportage è la loro piattaforma e non la mia, che la loro storia sarà raccontata per loro e che sono loro a decidere cosa posso fotografare».
E poi c’è la paura. «Ne ho sempre, prima di ogni incarico. Il punto non è averne, il punto è gestirla, sono lì per fare un lavoro, non posso permettere che la paura si metta in mezzo». Studiare, prendere contatti, prevedere tutto quello che può andare storto, anche essere sempre allenata e in forma sono alcuni degli
strumenti con cui tenerla a bada. «Quando ero agli inizi sono stata vittima di un’imboscata in Iraq, ero paralizzata dal terrore, non avevo strumenti per capire la situazione, per decidere come comportarmi». Anni dopo, nel marzo del 2011, è stata rapita in Libia insieme a tre colleghi, tenuta prigioniera, minacciata di morte e molestata per cinque giorni prima di essere liberata. In questi casi, racconta, si entra in quello che definisce «survival mode», modalità di sopravvivenza. Verbalizzare, ragionare, capire, respirare, non farsi travolgere. Il mese successivo Tim Hetherington, suo collega e amico, è stato ucciso a Misurata. Alla fine di quello stesso anno è nato il figlio di Lynsey, Lukas, che oggi ha sette anni. «Continuo a viaggiare, ma mi tengo a distanza maggiore dal fronte, seguo le crisi umanitarie dietro le linee di combattimento, per continuare a fare il mio lavoro, ma essere anche sicura di tornare da lui». Durante i primi viaggi, gli smartphone non esistevano e non eravamo inondati da foto su Instagram da ogni angolo del mondo, zone di guerra comprese. I ruoli e i compiti erano più chiari. Ma Addario non è una nostalgica, non vede tutto questo come una minaccia, ma come un altro modo per raggiungere gli americani distratti e spingerli a sollevare la testa, ricordargli che c’è un mondo complicato e interessante là fuori. «A volte raggiungi il pubblico con un reportage sul New York Times o su National Geographic, altre volte basta una foto su Instagram». La parte importante è sempre la stessa, raccontare l’umanità che c’è dietro ogni conflitto. Amore e guerra, appunto. Tante persone hanno chiesto a Lynsey le immagini del parto di Noor, la ragazza che aveva accompagnato in ospedale con la sua auto. Quelle foto, però, lei non le ha mai scattate, anche se era lì proprio per raccontare le giovani madri dell’Afghanistan. «Ero entrata nella fotografia, ero coinvolta, era ormai anche la mia storia, non potevo essere più io a occuparmene come reporter».