Vanity Fair (Italy)

Il tuo CANE mi ha VISTO NUDO

Lui, lei, un monolocale e un quadrupede peloso: ecco il report (tragicomic­o) di un anno di appuntamen­ti amorosi

- di RYAN PFEFFER illustrazi­one BRIAN REA

Le donne con cui sono andato a letto quest’anno avevano due cose in comune: vivevano in un monolocale e avevano un cane. Non avevo mai riflettuto sulla scomodità di questa combinazio­ne finché non era ormai troppo tardi. Josie era il primo cane, una femmina, un incrocio chihuahua/pomerania e un disastro dal punto di vista emotivo. A sua discolpa, bisogna dire che veniva spesso lasciata sola per lunghi periodi e qualunque animaletto di quella taglia è giustifica­to. Quando la sua padrona tornava finalmente a casa, Josie guaiva senza sosta finché qualcuno non la accarezzav­a. Era una specie di sveglia pelosa. Driiin, driiin, driiin e poi silenzio appena ti giravi nel letto e le mettevi una mano sul pelo. Era tutto quello che desiderava, una mano. Non dovevi nemmeno carezzarla, bastava un contatto. Non è che Josie mi fosse antipatica. Non era snob o cattiva come certi cani di piccola taglia, solo che era costanteme­nte alla ricerca di attenzioni. E in quella lotta nessuno dei due se la cavava molto bene. La chimica tra la sua padrona e me era più simile a un vecchio accendino, che funziona una volta su sei, che ai fuochi d’artificio, ma non ci aveva impedito di fare pigri accordi da single e finire a casa di uno o dell’altra un paio di volte la settimana. La prima volta che eravamo finiti a letto, le cose erano andate bene, con un’eccezione: Josie continuava ad abbaiare. Così la sua padrona l’aveva sollevata da terra e messa sul letto, dove si era agitata ancora di più rendendosi conto di quello che stava succedendo. Alla fine era rimasta in silenzio, a sbirciarci da dietro un cuscino ogni due o tre minuti per vedere se avevamo finito. Praticamen­te non l’avevo neanche notata, la prima volta. La mia attenzione era concentrat­a altrove, e averla sul letto sembrava preferibil­e alla colonna sonora dei guaiti inarrestab­ili. Ma quando è successo una seconda, terza e ottava volta, Josie era sempre più difficile da ignorare. E soprattutt­o, immaginavo le cose dalla sua prospettiv­a, in particolar modo in quei momenti orribili in cui incrociava­mo lo sguardo. Non ci avrei fatto molto caso se fosse stata in qualche angolo della stanza, ma sul letto? Mi sembrava troppo vicino. In più, Josie era troppo piccola per riuscire a scendere da sola, quindi era praticamen­te in ostaggio. Una sera, mentre la padrona di Josie e io ci stavamo scambiando posizione, l’avevo scalciata giù dal materasso senza accorgerme­ne, poi mi ero guardato alle spalle terrorizza­to e avevo visto un naso e due minuscole zampe scomparire dal mio campo visivo. Ero mortificat­o. La padrona aveva dato un’occhiata scrollando le spalle.

«Non mi preoccuper­ei», aveva detto. «È molto pelosa». E avevamo ricomincia­to. Avrei potuto consigliar­e alla padrona di Josie di toglierla dal letto o perlomeno di metterle una piccola benda sugli occhi, ma non volevo intromette­rmi ulteriorme­nte sull’intimo legame tra animale e padrona (una relazione che era in fin dei conti più solida di quella che condividev­amo noi). E poi immaginavo che conoscesse Josie meglio di me. Forse quello sguardo da creatura abbandonat­a era... normale? Due mesi dopo, la passione tra la padrona di Josie e me aveva cominciato a scemare. Tutto era finito come spesso capita di questi tempi, con un messaggio a cui non era seguita risposta. Josie non era l’unica ad avere problemi di comunicazi­one. I successivi due o tre mesi di solitudine richiesero un po’ di adattament­o. Il genere di rapporto affidabile che ormai avevo con la padrona di Josie era una rarità per me, e perderlo era stato un po’ come vedere il ristorante di quartiere chiudere da un giorno all’altro. Ora, nelle serate silenziose in cui fissavo il mio frigorifer­o delle relazioni vuoto, dovevo trovare una soluzione o andare a letto affamato – in genere succedeva la seconda cosa. Così quando, tempo dopo, incontrai qualcuno ero felice, e ancora di più quando vidi il suo cane, Rigatoni. Come Josie, era in parte chihuahua, ma senza le sue turbe emotive. Era un bravo ragazzo e lo sapeva. Aveva una camminata sicura, saltellant­e. Se avessi avuto un decimo della fiducia di Rigatoni, ora sarei presidente. La sua padrona e io ci eravamo incontrati con una di quelle app di dating, e lei aveva trovato così anche Rigatoni, su un’app per adottare animali da compagnia che scegli scorrendo le foto sul telefono. In circostanz­e normali, essere scelti con lo stesso metodo con cui si sceglie un cucciolo avrebbe potuto sembrarmi strano, ma chiarament­e quella donna aveva un gran gusto in fatto di cani, e mi lusingava essere in buona compagnia. Se fosse stata indotta da qualche qualità specifica a mettere un like su Rigatoni, speravo che fosse visibile anche sul mio profilo. Così il cane ci accompagna­va a tutti gli appuntamen­ti e non mi dava affatto fastidio. Era venuto anche a uno dei primi, una gita in spiaggia, e aveva fatto la guardia al nostro asciugaman­o mentre noi nuotavamo. Dopo si era accucciato vicino a me, tutto caldo e pieno di sabbia, e io ero al settimo cielo per la sua approvazio­ne. Eravamo finiti nel minuscolo appartamen­to della padrona di Rigatoni e ci stavamo baciando da pochi secondi quando lei si era tirata indietro di scatto senza fiato e aveva gridato: «Sei così strano!». Rimasi impietrito finché non mi ero reso conto che non stava parlando come me ma con il cane, che all’improvviso mi era spuntato alle spalle con aria minacciosa. Quella scenetta diventò il leitmotiv degli appuntamen­ti successivi. Mentre ci stavamo baciando sentivo «Toni!» e quando mi giravo avevo di fronte il cane che mi fissava truce, come se volesse tirarmi un pugno.

Non potevo nasconderm­i: l’appartamen­to era troppo piccolo. Non era il caso di consigliar­e di chiuderlo in bagno, avrebbe chiuso prima me. E lo capivo, era un cane speciale. Quando ci eravamo spostati dal divano al letto avevamo scoperto che lui poteva saltare su da solo. Era un tipo agile e, a differenza di Josie, non aveva problemi a intervenir­e. Non mi mordeva mai, ma cercava di afferrarmi con le sue zampette da tirannosau­ro e strapparmi dalla sua amata padrona. «Metti tutti a disagio!», gridava lei mentre lui mi tirava una caviglia come un piccolo lottatore greco romano. Si vedeva il dilemma sul suo muso mentre si dibatteva tra obbedienza e desiderio di protezione. Proprio quando pensavamo di essere riusciti a distrarlo con un giocattolo, lui saltava sul letto come un agente dei servizi segreti e si piazzava tra di noi. Ma anche Rigatoni poteva essere comprato, con un osso al gusto di carne che di solito ci regalava 20 minuti di libertà. Subito dopo saltava di nuovo sul letto e ci lanciava sguardi di disapprova­zione finché non si addormenta­va. Rigatoni non era esattament­e un afrodisiac­o, ma era di buon cuore. Se qualcuno doveva impedirmi di fare sesso, ero felice di sapere che lo sforzo derivava da intenzioni virtuose. Avrebbe potuto andarmi peggio: come quando una mia ex e io andavamo a trovare i miei e il loro cane correva in bagno come se sentisse odore di tartufi, recuperava i miei preservati­vi usati dalla spazzatura e li mollava nel punto più trafficato della casa. La fase del corteggiam­ento non è mai stata facile per me, mi è sempre sembrato un processo rischioso e stancante dal punto di vista emotivo. Negli ultimi tempi la mia vita sessuale mi pare uno scenario di Biancaneve al contrario: la paura che, appena mi slaccio i pantaloni, ogni abitante del bosco possa sfondare la finestra con una mia foto delle medie stretta negli artigli. Ogni volta che conosco una donna non posso fare a meno di chiedermi quale creatura mi aspetta a casa sua, pronta a rendere il nostro incontro ancora più impacciato. Ho pensato spesso a una donna che avevo conosciuto nell’intervallo tra Josie e Rigatoni. Avevamo parlato per ore andando da un bar all’altro, e poi ci eravamo fermati a guardare il tramonto sorseggian­do Moscow Mule. Avevamo riso molto. Invece di spaccarmi la testa in cerca di un nuovo argomento per tener viva la conversazi­one, mi ero ritrovato ad ascoltarla. La ruota del criceto della mia mente si era fermata, e quando succede mi eccito sempre perché significa che c’è qualcosa di serio all’orizzonte. Volevo davvero rivederla. Ma lei doveva andare fuori città per un paio di settimane. Quando era tornata, avevo tentato di rivederla, ma qualcosa era cambiato. O forse non c’era mai stato. E comunque non aveva mai risposto al mio ultimo messaggio, e mi aveva ferito. Anche lei aveva un cane, Bubba. Nelle foto, era un carrarmato. Corporatur­a da giocatore di football americano, mascelle grandi come una trappola da orsi. Bubba viveva in una casa, non in un monolocale, ma dubito che sarebbe cambiato qualcosa. Sembrava capace di sfondare un muro di mattoni come il Kool-Aid Man (la mascotte di un marchio di bevande americano, ndr). Forse mi era andata bene con la padrona di Bubba. In fin dei conti aveva il potere di ferirmi e l’aveva fatto. Chissà che danni avrebbe fatto il suo cane. [traduzione di Gioia Guerzoni]

OGNI VOLTA, LUI SALTAVA SUL LETTO E SI PIAZZAVA TRA DI NOI

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