Nero manifesto
Forse ha ragione Gauguin: non esiste nulla di davvero nero. Solo il buio antecedente al Big Bang lo è stato, come sostiene Manlio Brusatin, critico dell’arte e dell’architettura in Storia dei colori (Einaudi). Il nero è stato un colore impossibile fino al Trecento: i tintori ottenevano dei bluastri, dei bruni o dei grigi. Poi la svolta: il nero assoluto diventa una sfida d’artista. Negli anni Settanta, Pierre Soulages crea l’Oltrenero, dagli straordinari effetti ottici a seconda dell’illuminazione. Anish Kapoor rilancia quarant’anni dopo con il Vantablack, una sostanza composta da nanotubi di carbonio che ricrea il nero-buco nero capace di assorbire il 99,965% della luce. Anche nell’abbigliamento scatta la black ambition (parafrasando Madonna): il nero è appannaggio di nobili, togati, intellettuali, minimalisti ed esistenzialisti, ma anche dei ribelli come i pirati, degli esponenti della sinistra radicale, dei regimi totalitaristi, degli anarchici e dei punk, come i Crass, che lo adottarono in risposta all’omologazione della moda. Ha sedotto anche i famosi della contemporaneità: neri i golf di Sergio Marchionne e Steve Jobs, gli outfit di Karl Lagerfeld, i total look di Giorgio Strehler. Eppure è stato classificato come non-colore, a tinta omologante. Sbagliato: il nero è una tela che esalta il carattere o la sua mancanza.