Vanity Fair (Italy)

Nostalgia canaglia

- di SILVIA NUCINI foto STEFAN GIFTTHALER

Per anni Gino Cappone, capo tecnico del Teatro Ariston, è stato l’unico a possedere le chiavi di ogni camerino. Il suo compito era controllar­e che tutto, al Festival, filasse liscio assecondan­do ogni capriccio (vero Madonna?). Ma dando anche l’ultimo «vai!» verso il palco. A Rino Gaetano come ai Nobel

«Da casa non si vede, ma i cantanti hanno tutti paura. E i famosi, forse, hanno da perdere qualcosa in più»

C’è una sola bambina al mondo le cui prime parole sono state «mamma», «papà» e «Sanremo». E non poteva che essere la figlia di Gino. Gino Cappone, per tutti solo Gino, è il Festival quanto lo sono i fiori, l’assessore sul palco e le vallette; l’eminenza rubiconda che direttori artistici, conduttori e cantanti non scordano mai di passare a salutare, anche adesso che non lavora più a tempo pieno. Si sa sempre dove trovarlo, nella sala che gli hanno dedicato quando è andato in pensione, dopo 42 Festival della Canzone Italiana. La Sala Gino è una stanza grande poco più di lui, piena di leve e fili, e tecnologie stratifica­te nei decenni che l’uomo spiega con ostinazion­e, anche a chi non ci capisce niente. Il teatro è casa sua – «di più, di più di casa mia», dice – dal 1974 quando comincia a lavorare all’Ariston come operatore cinematogr­afico. Dopo un po’ diventa elettricis­ta, poi tecnico delle luci e infine capo tecnico, un mestiere che in teatro è tutto. Per anni è stato l’unico ad avere le chiavi di tutti i camerini, a prepararli secondo i capricci degli artisti, a chiuderli a notte fonda, dando un’occhiata veloce a quello che ci avevano lasciato dentro. Una bottiglia finita, il cibo intonso, fogli stracciati, vestiti sudati, tracce d’amore. Si tirava dietro la porta, girava la chiave nella toppa e fingeva di dimenticar­e quello che aveva visto. Se Gino è così amato da tutti è perché, in tutti questi anni, non ha mai fatto un pettegolez­zo su nessuno; e anche adesso che l’età e gli onori sul campo gli consentire­bbero di rompere la regola, racconta pochissimi peccati e quasi nessun peccatore. «La più difficile di tutti è stata Madonna, questo lo posso dire. Al Festival ci è venuta nel 1995 e nel 1998, e tutte e due le volte ci ha fatto avere una lista infinita di cose di cui aveva bisogno prima di salire sul palco. Il tal succo di frutta, ma americano, il tal cibo esotico. Abbiamo sempre cercato di accontenta­re tutti gli artisti, e se qualcosa non ha funzionato, non ho mai dato colpe a nessuno». Ci sono altre due cose che Gino non ha mai fatto durante il Festival: salire sul palco e chiedere autografi. «Le firme non mi interessan­o. E poi, tanti anni fa, sono rimasto scottato da Gigliola Cinquetti. Le porsi un foglietto, le dissi “per una mia amica”, mi rispose “non mi interessa”. Non l’ho fatto mai più». Gino è stato per molti cantanti l’ultima persona che hanno visto prima di esibirsi sul palco. «Da casa forse non si vede, ma hanno tutti paura: anche solo un momento, ma ce l’hanno. È lì che devi appoggiarg­li una mano sulla schiena e dirgli: vai. Non c’è nessuna altra occasione per un artista che sia così breve. Qui, in tre minuti, ti giochi il tutto per tutto. E non importa se sei un esordiente o uno affermato. Anzi forse i famosi hanno da perdere qualcosa in più». Una gara è sempre una gara, e anche se la gestione Baglioni ha sfumato un po’ le cose, c’è sempre uno che vince e gli altri no. «Una volta la competizio­ne era davvero feroce. Dietro le quinte si dicevano tutti: maestro! Bravissimo! Che interpreta­zione! Poi giravano le spalle e mormoravan­o: mavaffancu­lo. Adesso i cantanti quasi non si incrociano, contornati come sono da mille persone. Che cosa fa tutta questa gente io nemmeno l’ho capito, ma sono troppi, danno fastidio: non è che perché hai il pass, puoi qualsiasi cosa».

La nostalgia, in Gino, è soprattutt­o una dimensione musicale. Suona il basso tuba da sempre, le canzoni le ascolta davvero, rimpiange «quando i musicisti dovevano avere le orecchie. Adesso, mi pare, non è più tanto necessario». E non importa se allora la scenografi­a era solo un arcobaleno di cartone – era il 1978, vinsero i Matia Bazar, ma Gino, ricordando quell’edizione, canticchia Gianna di Rino Gaetano – e adesso invece fa tutto il computer. Le sue canzoni preferite sono Volare (Modugno, vincitore nel 1958, lui non c’era e il Festival si faceva ancora al Casinò: approderà all’Ariston nel 1977) e Felicitˆ (Al Bano e Romina, 1982, arrivarono secondi), ma fa fatica a sceglierle, perché ha voluto bene un po’ a tutte. Come è affezionat­o a tutti i famosi o meno che sono passati dall’Ariston: «Ma l’onore più grande è stato stringere la mano ai Premi Nobel Dulbecco e Gorbachev

che sono venuti nel 1999 con Fazio. A proposito: lo sa che i fiori di Sanremo vanno anche alla cerimonia dei Nobel? E che il signor Nobel aveva la villa proprio qui in paese?».

C’è stato un tempo in cui Sanremo non era sinonimo di nazional popolare, ma di jet set internazio­nale che trascorrev­a le sue estati sulla Riviera dei Fiori. I villeggian­ti arrivavano con il volo Londra-Nizza, con la ferrovia che si è spinta fino a qui solo nel 1872. Prima, visto che l’Aurelia era mezza franata, Sanremo era raggiungib­ile solo via mare. Dal treno scendevano le grandi famiglie, i bauli, la servitù: cominciava la vita mondana. Al Casinò la prima edizione del Festival venne accolta dagli ospiti con un misto di stupore e fastidio: erano lì per cenare e ballare. Per quanto ne avevano ancora quei cantanti? La musica, tanto, la si sentiva già dappertutt­o: nei ristoranti, nei bar e nelle sale da tè. C’era anche la fanfara dei bersaglier­i che suonava in giro per la città, ogni giorno alle 17. L’avvento della tv al Festival ha cambiato la gara e anche la città. Sono arrivati i famosi, i giornalist­i (al quinto Festival si chiamò l’Ansaldo per costruire una tribuna per ospitarne 400), i paparazzi. Alfredo Moreschi, 87 anni, fotografo dei primi Sanremo (ma non del primo: allora c’era solo il fotografo ufficiale del Casinò, tal Mollica, che – arrabbiato per non si sa cosa – a un certo punto bruciò tutto il suo archivio), ricorda che Sorrisi e Canzoni e Bolero Film durante il Festival spostavano la redazione e impaginava­no il giornale lì, in riva al mare. «Ma erano altri tempi, i divi stavano in mezzo alla gente, adesso puoi vederli solo a pezzi: un naso, un cappellino, degli occhiali da sole, tra una bodyguard e l’altra», dice il fotografo.

M«Io il Festival l’ho visto sempre e solo da qui dietro. Se non potessi venire più all’Ariston, quelle sere, cambierei canale»

entre parliamo mancano due settimane alla prima serata, ma c’è già gente che sta fissa alle transenne. Deve arrivare a provare Renga e devono uscire i Negrita, meglio farsi trovare pronti. Sono i giorni del sabato del villaggio di Sanremo: i ristoranti si preparano a riaprire, gli alberghi ad alzare i prezzi, i negozi a cambiare le vetrine. «È una strana sensazione, la sento ogni anno», dice Chiara Magliocche­tti, ultima generazion­e, insieme a sua cugina Anna, della famiglia Vacchino, che l’Ariston l’ha costruito. «Una grande energia che, poi, finisce all’improvviso. La sera della finale, quando spegni l’ultima luce della sala è durissima. Ci vogliono settimane per riprenders­i». Gino questa sensazione la conosce benissimo ed è per questo che viene a lavorare anche se non dovrebbe. Ed è per questo che, quando gli chiedo se il Festival l’ha mai visto solo in tv, si passa il dorso della mano sugli occhi rossi. «L’ho visto sempre e solo qui. Se non potessi più venire all’Ariston, quelle sere, cambierei canale».

 ??  ?? Nella pagina a sinistra, la fontana iconica di Sanremo. In questa pagina, in senso orario: l’Hotel Royal; l’ingresso del Teatro Ariston, costruito nel 1963, che dal 1977 ospita il Festival della Canzone Italiana che prima si teneva nel Salone delle Feste del Casinò; l’insegna luminosa del famoso cinema teatro; il manifesto di un’edizione passata custodito all’interno del teatro. Quest’anno il Festival si tiene dal 5 al 9 febbraio: a pag. 51 prosegue il nostro «Speciale Sanremo».
Nella pagina a sinistra, la fontana iconica di Sanremo. In questa pagina, in senso orario: l’Hotel Royal; l’ingresso del Teatro Ariston, costruito nel 1963, che dal 1977 ospita il Festival della Canzone Italiana che prima si teneva nel Salone delle Feste del Casinò; l’insegna luminosa del famoso cinema teatro; il manifesto di un’edizione passata custodito all’interno del teatro. Quest’anno il Festival si tiene dal 5 al 9 febbraio: a pag. 51 prosegue il nostro «Speciale Sanremo».
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 ??  ?? Gino Cappone, 66 anni, ha lavorato per 42 Festival della Canzone Italiana: prima elettricis­ta, poi tecnico delle luci, infine capo tecnico dell’Ariston.
Gino Cappone, 66 anni, ha lavorato per 42 Festival della Canzone Italiana: prima elettricis­ta, poi tecnico delle luci, infine capo tecnico dell’Ariston.
 ??  ?? L’ingresso alla platea dell’Ariston dal foyer del teatro.
L’ingresso alla platea dell’Ariston dal foyer del teatro.

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