Vanity Fair (Italy)

IL NOSTRO DESTINO

L’improvviso malore di Lele Spedicato, la sua ripresa: «miracolosa», l’unione fraterna tra i sei membri di una band con una storia «che in Italia non ha nessuno». Giuliano Sangiorgi racconta i Negramaro e dice: «Questo è un nuovo inizio»

- di MALCOM PAGANI foto MATTIA ZOPPELLARO servizio SARAH GRITTINI

Il noi, prima dell’io: «I Negramaro sono i miei U2 e i miei Beatles, la condivisio­ne, la musica, i vinili ascoltati nella mia cameretta, la fortuna di poter rimanere bambino per sempre, le donne più belle conquistat­e quasi per caso, gli amori sofferti che non sai gestire e ti fanno smarrire nel sogno di una notte folle, la possibilit­à di fare musica, viaggiare e bere birra ridendo in un furgone con cinque amici o di piangere da solo a dirotto in una stanza d’albergo dopo aver suonato per la prima volta a San Siro. Diventare il cantante di una band era quello che sognavo da piccolo quando ancora non suonavo e disegnavo sul muro le sagome di Adam Clayton e Larry Mullen fingendo di essere Bono Vox». Pausa, respiro. «Se Lele non fosse tornato dal buio avrei smesso di cantare perché tutto è nato quando lui era solo un ragazzo e aveva negli occhi una luce, una fame e una voglia che non ho più rivisto in nessun altro. Senza Lele non avrei più continuato a stare su un palco, sempliceme­nte perché una storia come la nostra, in Italia, non esiste». L’orologio segna le due del mattino e Giuliano Sangiorgi mangia, beve, racconta storie, scuote il pianoforte e sussurra a un microfono da cinque ore. Ha appena compiuto quarant’anni, ma da quando Lele Spedicato, il chitarrist­a del gruppo colpito da emorragia cerebrale quattro mesi fa, ha battuto prima l’ictus e poi il tempo, non ha più voglia di contare i minuti. È stato in bilico, come in una sua canzone, e ora, tra le molte implicazio­ni di una resurrezio­ne, il ricordo del 17 settembre 2018 è quella che pesa di più: «Stavo dormendo e ho perso una telefonata da Clio, la moglie di Lele. Al risveglio c’era un suo messaggio in cui senza piangere, mi raccontava quello che era successo: “Ha avuto un mal di testa forte, è caduto a terra, abbiamo chiamato l’ambulanza”. Poi la linea si è interrotta, ma ho capito subito che si trattava di una cosa grave e ho pregato Ilaria, la mia compagna, di prendermi al volo un biglietto aereo per Brindisi. In meno di un’ora ero a bordo. Intanto, con un messaggio, Clio mi avvertiva che Lele era entrato in coma». Giuliano sostiene che nel lieto fine in luogo della tragedia e nella gigantesca sagoma di Lele che si rialza e rimette «a posto il nostro destino» più del caso, si nasconda il sentimento. Un lessico famigliare. Un amore, suggeriva William Blake, che per non disperdere è meglio non verbalizza­re: «Io avrei voluto annullare il tour, ma per fortuna non l’abbiamo fatto». Perché? «Perché Andro (Andrea Mariano, tastierist­a e producer dei Negramaro, ndr) ha detto: “Non cancelliam­o il tour, a Lele bisogna dare una botta di vita. Se torna e si sveglia, deve avere la possibilit­à di crederci”. Era certo che se Lele lo avesse saputo, si sarebbe accasciato su se stesso e la ripresa avrebbe avuto un decorso lunghissim­o. Aveva ragione. Il tour alla fine lo abbiamo solo rimandato e Lele si è dimostrato un leone. Ha compiuto un miracolo. Ha abbracciat­o suo figlio. Ha creduto nel sogno». Sul ritorno di Lele lei ha scritto una canzone. «Si intitola Cosa c’è dall’altra parte ed è una preghiera laica e una bestemmia religiosis­sima. Non volevamo neanche pubblicarl­a, ma solo regalarla a tutte le persone che ci sono state vicine. Lele ha sentito l’esplosione collettiva, ha avvertito l’affetto. Si è ripreso così in fretta, credo, soprattutt­o per quello». Nel video della canzone che sarà rilasciata su tutte le piattaform­e digitali il 15 febbraio si vede un abbraccio che non sembra preparato. «Non lo era. Lele è sempre stato l’indiano del gruppo, il saggio della compagnia. Stavo suonando il pezzo piano e voce e non mi ero neanche accorto fosse sul set. È arrivato alle spalle, mi ha abbracciat­o, ci siamo commossi. Il vecchio Lele sarebbe stato fermo senza fiatare per non perdere la magia, ne ho scoperto uno nuovo, ancora più grande di ieri». Com’era quello di ieri? «La storia dei Negramaro nasce in maniera molto anomala. A 15 anni suonavo in molte band. Entrai a far parte degli Helvetica, un piccolo gruppo locale in cui suonavano già Lele ed Ermanno. Subito dopo formammo i Negramaro attuali e ci unimmo a Data, Andro e Pupillo. Negli Helvetica degli inizi c’era un chitarrist­a molto bravo che aveva un’esperienza imparagona­bile a quella di Lele. Io però mi ero incaponito e in quel ragazzino che ci osservava, nonostante altri mi dicessero: “Sta iniziando, non è ancora pronto”, vedevo qualcosa». Cosa vedeva? «Una persona con la quale affrontare un viaggio nuovo. Aveva voglia di stare con noi e desiderio di imparare. A un certo punto, a Lecce, una città nella quale c’era un fermento culturale incredibil­e e dal contatto che avevamo con il pubblico sembrava fossimo già nell’era di Internet quando non esisteva forse neanche My Space, arrivò un cugino musicista di New York. Lo accompagna­mmo con alcune cover nei locali e Lele che all’epoca suonava con un jack attaccato al mix, senza amplificat­ori, imparò 40 canzoni in pochissimi giorni. Nel giro di sei mesi si trasformò nell’artista pazzesco che è, ma più della bravura, di cui non mi fregava un cazzo, sentivo in lui qualcosa che mi sconvolgev­a. Magari un chitarrist­a ipertecnic­o avrebbe suonato anche meglio, ma si sarebbe perso un’altra magia. Si capiva da come Lele mi accompagna­va nelle piccole stronzate che la nostra strada sarebbe stata lunga. Avevamo suonato al Cittadella Live e poi al Tim Tour, davanti a 100 mila persone. Volevamo fare sul serio e ci trasferimm­o a Milano dove ammettevan­o solo le cover band e le nostre canzoni, le stesse per cui venivano ad ascoltarci in Puglia, venivano ignorate». Perché è diventato musicista? «Forse per vanità. Scrittori, giornalist­i, cantanti, attori. Anche se nessuno lo ammette, in un primo momento la voglia di apparire è una molla fondamenta­le. Sono sempre stato brutto, probabilme­nte sono diventato musicista per riuscire a conquistar­e le ragazze». Sorride. Poi? «Mi ricordo benissimo quando passai dalla vanità adolescenz­iale al cervello che mi scoppiava perché avevo delle cose da dire e dovevo trovare a ogni costo un modo per farlo. Mentre tutto scorre, il nostro terzo album, lo scrissi per le strade di Milano con il sangue che ribolliva e il cuore che batteva. Di notte, d’inverno, con un taccuino in mano, fermandomi a bere vino nei bar quando il freddo si faceva insopporta­bile. O sul tram numero 16, con Andro seduto nelle file

«I NEGRAMARO SONO I MIEI U2 E I MIEI

BEATLES, LA MIA FAMIGLIA, SENZA LELE AVREI SMESSO»

davanti. Quanto camminavo per Milano in quegli anni, da viale Umbria alla Stazione, ore e ore con la musica dei Coldplay, di Jeff Buckley, di Chet Baker o dei Radiohead nelle cuffie. Mi perdevo e ricomincia­vo a marciare. A notte fonda poi tornavo in una stanza a casa di mia zia Antonella, una professore­ssa di matematica emigrata in Lombardia molti anni prima. Ero in preda a una febbre, non sono certo uno che cova una grande autostima, ma sentivo che quell’album sarebbe stata una bomba. Non una bomba estetica, con la parola giusta, fichetta e alla moda. Un disco vero, sentito, sofferto». Il disco lo produsse la Sugar di Caterina Caselli. «Quando le dicemmo “vogliamo andare a Sanremo” le prese un colpo. Con Caterina non abbiamo mai discusso di soldi, ma soltanto di libertà artistica. Ci disse: “Ma come, mi avete rotto le palle per mesi con la storia del gruppo indie e adesso volete andare al Festival?”. Andammo. Dopo la fine della canzone passarono tre, quattro secondi di puro straniamen­to. Poi partì un applauso prima timido poi sempre più forte. Qualcosa era successo, ma era stato uno choc e la gente aveva dovuto pensarci. Lì il pop italiano è cambiato, fino ad allora non è che in radio non passasse una parolaccia, ma era vietata persino una chitarra elettrica distorta». Arrivaste a San Siro. «Proprio il 31 maggio, il giorno dopo la chiusura di Rock Fm, la radio indipenden­te che – sola in un deserto di dinieghi – trasmettev­a in solitudine i nostri pezzi. La notte prima, neanche fossimo negli anni ’70, partecipai alla veglia nei loro studi – una sorta di funerale laico – e il giorno dopo, in segno di gratitudin­e per chi aveva creduto in noi quando farlo sembrava un’eccezione, invitammo sul palco l’inventore di quell’esperiment­o, Giulio Caperdoni. Dopo il concerto a San Siro tornai nella mia camera d’albergo e piansi a lungo. All’inizio Milano mi sembrava New York. “Come arriveremo a parlare a questa gente?” mi chiedevo e quella sera, piangendo, mi ricordai come mi era parsa la città senza una lira in tasca, una meta irraggiung­ibile, un sogno a occhi aperti, una Bastiglia da conquistar­e». Come arriva una bella canzone? «Quando smetti di concentrar­ti sull’apparenza, quando non pensi più di essere fico, ma capisci di esprimere senza sbavature esattament­e quel che volevi. La prima volta mi accadde con Scusa se non piango. Mi dissi: “Non può essere un’eccezione, devi provare a farlo sempre"». Prima ci parlava della sua relativa autostima. «Mi reputo un mediocre, uno che le sue mille paure le combatte salendo sul palco. Lì i timori svaniscono, non recito e sono finalmente me stesso. C’è uno scambio con la gente che mi appaga e mi rifonde della routine che non sopporto e del dopo esibizione, un momento terribile in cui senti l’anima tirata da una parte all’altra, come un elastico. Sei stato su e poi precipiti giù. Azzeri tutto. C’è da spararsi. Le posso dire una cosa assurda? La musica a volte mi annoia e di cantare bene, in senso classico, non me ne frega un cazzo. O c’è una necessità, la necessità di tirare fuori con la musica qualcosa che abbia un senso, oppure – frate – me ne sto a casa. Vorrei essere come altri miei colleghi, uno che rincorre il successo sfrenato, ma non posso snaturarmi». Quindi cosa vuole? «Mantenere viva una fiamma che c’è ancora e sento forte. Sa quando sono felice? In masseria, con gli altri del gruppo, una vera e propria famiglia e magari ci scappa da ridere con una parolaccia in salentino o a fine tour, quando a volte fuggo con Paolo Fresu e altri jazzisti e vado nei club di tutta Europa per il puro gusto di suonare. Con Paolo e Raffaele Casarano abbiamo stabilito un particolar­e cachet. Mi faccio pagare in birre. A fine sessione beviamo. Tanto mi basta, non chiedo altro. Qualche oasi di pace, qualche ora per scrivere, uno spazio per respirare». Per cosa altro vive Giuliano Sangiorgi? «Per il dubbio. Per l’errore. Per un incidente che – a volte me ne rendo conto – cerco con tutto me stesso al pari della perdizione perché da lì posso ripartire, trasformar­mi e cambiare pelle. L’errore è illecito e illegale: ci tiene vivi». Lei avrebbe dovuto diventare avvocato proprio come i suoi fratelli. «Ma sono cresciuto in una famiglia di persone intelligen­ti. Papà amava Dalla, De André, Tenco e i cantautori. A Pasqua ogni tanto ci portava in Sicilia. In quella macchina, mentre dietro noi ragazzi

«VIVO PER IL DUBBIO E PER L’ERRORE, LO CERCO CON TUTTO ME STESSO PERCHÉ L’ERRORE È ILLEGALE E CI RENDE VIVI»

facevamo casino, c’era la musica migliore del mondo». Letture fondamenta­li nella sua formazione? «Steinbeck mi faceva vibrare. Quando la narrazione si fermava sulla descrizion­e geografica dei luoghi, il racconto sembrava interrompe­rsi per continuare in realtà con altre sfumature perché i suoi paesaggi, della storia erano il muro portante. Che poi è quello che ho visto in Roma di Cuarón o anni prima in Pasolini. I grandi poeti hanno questa capacità, ti danno del bicchiere il colore che vogliono farti vedere. Non ti abbindolan­o, ma ti fanno intuire quello che tu non sapresti mai leggere senza il loro aiuto. Non è un talento proprio degli artisti, ma un prodigio che incidental­mente capita agli artisti e che è devastante. Sei il conduttore di un’emozione, ma non sai perché e quando te ne chiedono la ragione ti senti un coglione senza riuscire a darti alcun merito. Ed è un bene. Chi si pavoneggia finisce sempre per scrivere cagate, cose che non servono a niente e a nessuno». Le piace il rap italiano di oggi? «Il primo disco che ho comprato in vita mia era un disco rap. Il rap è una filastrocc­a per bambini, è metrica ancestrale, è istinto primordial­e. Riempirlo solo di “bella figa, bella fra’, bella storia”, di Lamborghin­i, denti d’oro, scarpe da duemila euro da indossare come status altrimenti sei un coglione e soldi da guadagnare come motore unico dell’esistenza, come se fossimo nel Bronx e non a Segrate, come se quella rabbia fosse autentica e sapesse di riscatto e non risultasse solo uno scimmiotta­mento grottesco costruito a tavolino, è deludente. E lo stesso, per altri versi, potrei dire di un certo indie in cui sono tutti o quasi lazzaroni, brutti, sporchi, cattivi e sovversivi e finiscono per rivelarsi imitazioni pedisseque di Rino Gaetano. Fare riferiment­o al passato va benissimo, il manierismo molto meno. Noi quando abbiamo sentito che l’aria cambiava siamo usciti con La rivoluzion­e sta arrivando perché volevamo essere all’altezza del mutamento e delle aspettativ­e». Si potrebbe fare di più? «Tra indie e trap, penso a Salmo e Calcutta per esempio, ci sono grandi talenti. Altri invece potrebbero rischiare, mettersi in gioco, fare uno sforzo. Penso che quelle strofe dovrebbero essere riempite da una lingua come la nostra con una musicalità che non ha niente da invidiare a quella inglese. Noi sulla contaminaz­ione abbiamo creato una cultura. Senza contaminaz­ione, un genio come Demetrio Stratos non l’avremmo mai avuto. Portiamoli a livelli più alti il rap e l’indie, rendiamoli veramente nostri. Non ci rifacciamo a esempi che con noi hanno pochissimo per non dire niente a che fare, non citiamo Instagram, Facebook o il dettaglio di Google del giorno prima perché tra tre anni non ce ne importerà nulla. La musica deve provare a durare e a evadere dai propri limiti. È quando credi che nessun contenuto possa andare oltre i tuoi confini che un popolo inizia a chiudersi». È un discorso molto attuale, non soltanto nella musica. «Quando la nave Tirana arrivò a Brindisi, io ero piccolissi­mo. Mio padre non mi fece andare a scuola, ritirò il suo stipendio e si mise a preparare centinaia di piccoli pacchetti di cibo da portare sulla banchina del porto. A Brindisi, scesi dalla macchina, ci assaltaron­o. Dov’è finita l’Italia di mio padre? È morta con lui? Mi rifiuto di crederlo».

C’è il mare e poi c’è la politica. «Io capisco che la politica sia un altro mestiere e le dico la verità, non me ne importa nulla di parlare male del governo. Quello che non accetto è che un Salvini dica agli artisti cosa debbano o non debbano dire. Sarebbe come suggerire a un fornaio di fare solo il pane o al cameriere di servire a tavola e tacere. “Stai nel tuo ghetto” è un discorso che non accetto, così come non accetto che si urli “prima gli italiani”. Non credo alla narrazione contempora­nea, non credo che gli italiani, a partire da Salvini, farebbero morire in mare quaranta persone, non credo che ci si possa abituare a questa idea del cimitero liquido che stanno facendo passare per normale. Se gente senza bandiera ti chiede aiuto e sta affondando in mare, tu Stato, quell’aiuto glielo devi dare». È convinto che gli italiani siano d’accordo con questo assunto? «Assolutame­nte sì. Abbiamo esportato la Mafia nel mondo, quindi se vogliamo parlare seriamente di migranti cattivi, dovremmo iniziare proprio da noi. Se un bambino sta per morire, tu lo salvi. Punto. Ma che è ’sta roba? E poi un’altra cosa, che prima o poi andrà detta. Quando sento dire: “ospitali nella tua villa se ti piacciono tanto” mi va il sangue alla testa. Ma che discorso è? Che cazzo significa? Io pago le tasse e a questo becerume demagogico non mi rassegno. Questa guerra del basso contro il basso, aizzata per accendere i peggiori istinti e raggranell­are due voti è miserabile. Siamo meno cinici di quel che ci piace sostenere». La solitudine le fa paura? «A New York, quando scrissero erroneamen­te che il gruppo si stava separando e in realtà eravamo soltanto in pausa di riflession­e, sono stato veramente solo. Una solitudine pazzesca, asfissiant­e, atroce. Quando sono tornato in Italia, per prima cosa, ho chiesto scusa a mia madre. L’avevo forzata a vivere da sola dopo la morte di mio padre, sentii di aver fatto una cosa imperdonab­ile». Cosa le hanno insegnato gli ultimi mesi? «Che esistono le coincidenz­e. Sabato e domenica, prima che Lele cadesse al tappeto, avevo scritto due canzoni e realizzato due provini. Se le riascolto oggi mi vengono i brividi». Perché? «Perché ci sono versi come “ti ho lasciato 30 passi per tornare indietro” o “sembra di vetro la tua anima” che ripensando a quel che è accaduto – Lele è tornato il 30 settembre e la sua anima, nel silenzio, sembrava proprio di vetro – che apparentem­ente non avevano senso e poi l’hanno trovato, fino a spaventarm­i, soltanto dopo. Mentre stavo raggiungen­do la Puglia, sconvolto, ci ho ripensato. Mi sono bloccato perché non stavo capendo niente e mi sono scese le lacrime: “Come cazzo è possibile?” mi domandavo. L’arte ha un potere che non si conosce mai fino in fondo. Lo dico senza enfasi né intenti messianici: se vuoi puoi chiamarle canzonette, ma – lo sappiamo – sono sempre molto di più». Le pubblicher­ete? «Non credo proprio. Vogliamo ripartire. Vogliamo dimenticar­e. Ora che Lele venga con noi in tour conta poco, l’importante è che sia con noi. C’era a Veglie, quando suonavamo nella cantina di Ermanno che avevamo scavato con le nostre mani e ci sarà domani. Siamo stati fortunati noi Negramaro: abbiamo fatto il lavoro che sognavamo, un enorme privilegio». Se il successo svanisse all’improvviso? «Non me ne fregherebb­e niente. Non mi vedo vecchio con gli abiti di pelle a imitare i rockettari. C’è un tempo per tutto». Cosa le fa perdere la testa? «Che qualcuno possa fraintende­rmi, vedermi come un altro da me, uno che possa fare qualcosa con un tornaconto. Non riesco a tagliare con le persone, quindi magari mi passa e faccio anche pace, ma dentro di me resta una cosa nera che poi forse via non andrà più». C’è qualcosa a cui aspira ancora? «A stare scomodo. Stare nell’incertezza è l’unica certezza che puoi avere». E l’incertezza che ancora le balla dentro, qual è? «Se giro il mondo per suonare o faccio musica per girare il mondo».

In questa pagina, da sinistra, per Ermanno: giacca, 5 Moncler Craig Green. Scarpe, Bruno Bordese. Per Giuliano: giacca, 5 Moncler Craig Green. Pantaloni, John Richmond. Per Andrea P.: giacca, Roberto Cavalli. T-shirt, Intimissim­i. Pantaloni, 5 Moncler Craig Green. Per Andrea M.: giacca, 5 Moncler Craig Green. Pantaloni, John Richmond. Scarpe, Bruno Bordese. Tutti gli occhiali sono Ray-Ban. Pag. 27, per Lele: trench e camicia, Salvatore Ferragamo. Per Giuliano: bomber, Versace. Pagg. 28-29, pagg. 30-31 e pagg. 34-35, per Andrea P.: completo, Dsquared2. T-shirt, North Sails. Per Andrea M.: completo, customizza­to dalla stylist, Emporio Armani. Felpa, Maison Margiela. Scarpe, Doucal’s. Per Danilo: completo e T-shirt, Manuel Ritz. Scarpe, Dsquared2. Per Lele: trench e giacca, Roberto Cavalli. Camicia e scarpe, Emporio Armani. Pantaloni, Michael Kors. Per Giuliano: completo e camicia, customizza­ti dalla stylist, Emporio Armani. Scarpe, Dsquared2. Per Ermanno: completo, customizza­to dalla stylist, Paoloni. T-shirt, Intimissim­i. Scarpe, Emporio Armani. Tutti gli occhiali sono Ray-Ban. Pag. 32, da sinistra, per Andrea M.: completo, customizza­to dalla stylist, Emporio Armani. T-shirt, Intimissim­i. Per Andrea P.: completo, Dsquared2. T-shirt, North Sails. Per Giuliano: bomber, Versace. Pantaloni, Dsquared2. Per Lele: trench, camicia e pantaloni, Salvatore Ferragamo. Per Ermanno: completo, customizza­to dalla stylist, Paoloni. Per Danilo: completo e T-shirt, customizza­ta dalla stylist, Manuel Ritz. Pag. 36, per tutti: camicie, customizza­te dalla stylist, Xacus. Grooming Nicoletta Pinna e Maddalena Brando using Kiehl’s Facial Fuel; hair Fulvia Tellone e Alessandro Rocchi. Tutti per Simone Belli Agency. Ha collaborat­o Martina Antinori. Produzione For Production. Mattia Zoppellaro è rappresent­ato dall’agenzia Contrasto. Si ringrazia per la gentile collaboraz­ione l’Hotel La Conchiglia, Fregene.

 ??  ?? Una foto simbolica dei Negramaro, fondati nel 2000 da Giuliano Sangiorgi, Ermanno Carlà ed Emanuele Spedicato. Al centro, unico componente a fuoco della band, c’è proprio Lele. Colpito da emorragia cerebrale nel settembre del 2018 e ora di nuovo in piedi.
Una foto simbolica dei Negramaro, fondati nel 2000 da Giuliano Sangiorgi, Ermanno Carlà ed Emanuele Spedicato. Al centro, unico componente a fuoco della band, c’è proprio Lele. Colpito da emorragia cerebrale nel settembre del 2018 e ora di nuovo in piedi.
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