Vanity Fair (Italy)

MAHMOOD

VI PIACE CANTAUTORE MOROCCAN POP?

- di FEDERICO ROCCA foto ATTILIO CUSANI

All’Ariston è già stato tre anni fa, poi ha vissuto una pausa difficile da mandare giù. Ora torna da trionfator­e dei «Giovani» con una canzone che parla di una famiglia non tradiziona­le. Lui, cresciuto tra le cassette di musica araba e quelle di Lucio Battisti, qui ci racconta un po’ la sua. E una certa ansia da figlio

Ho già fatto due volte lo stesso incubo, Claudio Baglioni che annuncia: al ventiquatt­resimo posto... Mahmood!». Meglio ultimo che decimo, no? «Mettiamola così: non ho nulla da perdere. Tutto quello che arriva è prezioso». Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, le sue occasioni le ha già avute. X Factor nel 2012, Sanremo Giovani nel 2016: se non fosse per un talento originale e cristallin­o, che lo pone in equilibrio precario tra trap e cantautora­to, forse del suo nome e della sua faccia «da schiaffi» – dice lui in Mai figlio unico – ce ne saremmo già dimenticat­i. E, invece, ora scommettia­mo su di lui. A Sanremo, un azzardo ci può stare. Quanto è cambiato dal suo primo Festival? «Sono maturato. La mia casa discografi­ca, all’epoca, decise di non farmi uscire subito con un disco, ma di farmi lavorare con altri autori. Un compromess­o difficile da mandare giù. Scalpitavo, ma quella pausa mi è servita per diventare quel che sono oggi». E di X Factor che ricordi ha? «È come se non lo avessi mai fatto. Sono durato due puntate: artisticam­ente ero informe, avevo solo una forte passione». Con Soldi torna all’Ariston. Di che cosa parla? «Di una famiglia non tradiziona­le, che nel tempo cambia. È uno sfogo personale, per far capire che, dopo essere stati figli, si diventa qualcosa di più: nasce un senso critico nei confronti dei genitori, della vita, del modo di vedere le cose. Soldi racconta una crescita». Le sue canzoni sono sempre autobiogra­fiche? «Questa lo è parecchio. Ma in molti mi hanno detto che è facile riconoscer­si in quello che canto». Qual è la storia della sua vita? «Sono nato a Milano da babbo egiziano e mamma sarda, ma sono cresciuto con lei. Ho un riferiment­o di figura paterna, però non è chiarissim­o. La mia vita è stata sempre così, alla ricerca di una mancanza». Perché ha perso di vista suo padre? «Sarebbe una domanda da fare ai miei genitori. Da grandi si può decidere di cambiare strada, di farsi un’altra vita, nella quale rientrano altre persone. Mi sono ritrovato in quella situazione, non l’ho scelta». È figlio unico? «Mio padre ha altri figli in giro per il mondo, nati da altri 4 matrimoni». C’è qualcosa di egiziano nella sua cultura? «Da piccolo non provavo attrazione per quel mondo, come quando da bambino rifiuti le verdure. Poi cresci e le cose cambiano. Oggi coltivo i ricordi. E lo vivo nella quotidiani­tà: il mio parrucchie­re si chiama Mustafa, con gli amici mangio il kebab». In una canzone canta «sono di Milano Sud ma sembra l’Africa». Il razzismo l’ha mai sfiorata? «No, la mia generazion­e non fa fatica ad aprire la mente». Forse è stato fortunato. «Al massimo mi chiamavano Manny, come il mammut dell’Era glaciale. Ho giusto vissuto qualche episodio di bullismo: alle medie stavo sulle mie, ero cicciottel­lo, con gli occhiali, portavo la doppia merenda, una me la fottevano sempre. Non ero il massimo della coolness. Ma non dipendeva dal cognome arabo. Il figo della classe, per dire, era cinese». A che punto sta la sua coolness? «Be’, mi sono dato un tono...». Ha anche fatto coming out… «No. Ho solo rilasciato un’intervista a un sito gay oriented. Tutto qui». In Anni 90 dice «fammi a pezzi quanto vuoi, come fossi l’erba quotidiana nel tuo grinder». «Parlo di una relazione consumata: i due si fanno a pezzi con le parole, come l’erba nel grinder». Grindr è un’app per incontri gay. «Ah! No, parlavo del macinino. Ma tornando alla domanda: gay, etero... penso che non ci debbano più essere distinzion­i di questo tipo». Il coming out di personaggi pubblici, in realtà, può aiutare altri. «È vero, ma penso anche che sia sbagliato, in un certo senso, parlare di queste cose. Dichiarare “sono gay” non porta da nessuna parte, se non a far parlare di sé. Andare in tv da Barbara D’Urso per raccontare la propria omosessual­ità mi sembra imbarazzan­te: così si torna indietro di 50 anni». Forse nel nostro Paese può essere ancora utile. «Ma se continuiam­o con questi distinguo, l’omosessual­ità non sarà mai percepita come una cosa normale, quale è». Il suo primo ricordo di Sanremo? «Alex Baroni che canta Cambiare». E se le dico Portami a ballare? «La so! Luca Barbarossa, 1992. L’anno in cui sono nato». Ha scritto il tormentone estivo Nero Bali. Le è scocciato non interpreta­rlo? «Sono contento che l’abbia cantata Elodie con Michele Bravi. Se l’avessi incisa io, l’avrei fatta diversamen­te. E non sarebbe diventata una hit». Si sente un cantautore? Oggi pare quasi una parolaccia… «Sì, perché no?». Aggiungere­bbe un aggettivo? «Sono un cantautore... moroccan pop. Che genere faccio? Pop, rap, indie? Quello che mi distingue sono le sonorità mediorient­ali che affiorano qua e là. A 5 anni ascoltavo le cassette di musica araba di mio padre e Lucio Battisti». Qual è la responsabi­lità di un cantante che parla ai giovani? «Hanno chiesto a Nicki Minaj che cosa pensasse del fatto che i suoi testi arrivano anche ai bambini. E lei ha risposto: non sono mica la loro mamma». E lei cosa risponde? «Il problema non sono i testi spinti, sono i testi vuoti. Credo si debba sempre lasciare un messaggio, autentico e vero. Anche se stai cantando di cosa hai mangiato a colazione». Non pensa che spesso il messaggio dei trapper sia discutibil­e, se non pericoloso? Mahmood fa una pausa, la prima. «No. Le canzoni non possono influenzar­e più di tanto». Le sue canzoni hanno un che di malinconic­o. Che cosa la fa stare bene? «Quando scrivo una canzone, la faccio ascoltare e mi dicono: che bella». Dovesse vincere, a chi la prima telefonata? «Dipende da chi verrà lì a vedermi». Sua mamma ci sarà a Sanremo? «Certo, e buona parte dei suoi 13 fratelli: zia Pasqualina, zia Rosa...». Suo padre lo chiamerà? «Eh...». Un’altra pausa, più lunga. «Be’ sì, dai». E che cosa pensa le dirà? «Ho solo un’ansia. Che mi dica: waladi habibi ta’aleena potevi pronunciar­lo meglio!». Che cosa vuol dire? «Figlio mio, amore, vieni qua». Pensa che la critichere­bbe? «Non so, forse no. Io mi sono impegnato molto, ho chiesto anche al mio parrucchie­re quale sia la pronuncia più corretta». Ma ci sarà una persona speciale alla quale telefonare? «Sarà con me a Sanremo. Vengono tutti. Ho solo chiesto di lasciarmi almeno un’ora al giorno di solitudine. Ce la farò?». A Sanremo? «No eh...».

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