Fare film è il mio modo di fare politica da un’altra prospettiva: non tornerò, è sicuro
«Carlo Degli Esposti e Vision, produttore e distributore, sono stati generosi, ma il film è un prodotto industriale. Nessuno mette in piedi un’operazione simile sulla simpatia o sui rapporti pregressi». Non ha risposto alla domanda. «Le dirò: chiedere non mi mortifica affatto. Ho delle idee – che per fortuna non mi sono mai mancate – e certo, il fatto che le proponga io mi restituisce la possibilità di essere ascoltato. Poi si valuta il progetto. Se non funziona, il film non si fa. Al di là del potere che un individuo abbia o meno avuto in mano nel passato». Cosa è stato per lei il potere? «Un mezzo per fare le cose in cui credi e non un fine. Quando ho avuto il potere, e certamente, pur nelle forme di una società democratica, mi è capitato di averlo, sono contento di averlo usato per realizzare progetti in cui concretizzare il mio sistema di valori. Non ne ho mai abusato». Perché un film di finzione? «Perché ho sempre amato il cinema e quando avevo 13 anni trascorrevo tutto il giorno vedendo film e riempiendo quaderni fitti di voti, volti e impressioni. Da un certo punto di vista ho sempre vissuto due vite, anche quando la politica mi divorava mi ero dato come obbligo quello di non consegnarle ogni secondo della mia esistenza. Sapevo che un giorno avrei smesso e non volevo che quel giorno, che sarebbe comunque arrivato, mi sorprendesse in una condizione di vuoto». Il vuoto le fa paura? «In realtà mi affascina. Più di ciò che è rotondo, finito o pieno. Nel vuoto puoi scendere ed esplorare. Il pieno lo guardi, il vuoto puoi riempirlo. E scrivere o girare documentari e film è anche un modo per mantenere viva la passione civile e fare politica da un’altra prospettiva. Non come professione, ma contribuendo alle ragioni che mi hanno spinto per quarant’anni a dedicarle tutto a tempo non pieno, ma pienissimo». In C’è tempo c’è un riverbero autobiografico? «La struttura adulta del bambino. A 13 anni ero proprio come Giovanni Fuoco, il ragazzino che duetta con Fresi. Non ero un nerd e giocavo anche con le figurine, ma iniziavo a crearmi le mie consapevolezze. Una volta finita la giornata, nella mia camera, dopo aver visto Carosello e prima di dormire mi facevo tante domande». Che domande si faceva? «Mi chiedevo: “Cosa sarò nel 2000, quando avrò 45 anni?”, “Cosa accadrà a mia madre ora che mio padre non c’è più?”. Domande normali che stupiscono solo quelli che i bambini non li conoscono. I bambini sono questo: gioco e domande. E quell’età, l’età che va dai 9 ai 13 anni, è quella che ci forma per sempre. Quello che siamo stati allora, siamo oggi». Che persona ha cercato di essere Veltroni? «Ho provato a non erigere muri, a non pensare che vivere bene significhi separarsi dagli altri. Se alzi un muro, prima o poi ti troverai circondato solo da quello. E lo spazio, proprio come ne La terrazza di Scola, inizierà a restringersi sempre di più fino a diventare asfissiante». Scola lei lo ha conosciuto bene. «È stato il mio più caro amico e anche la persona migliore che abbia conosciuto in vita mia. C’è tempo, a quella commedia all’italiana che ti faceva ridere e piangere, a tradimento, un minuto dopo, è debitore. Age, Scarpelli, Monicelli, Risi e naturalmente Ettore avevano letto Dostoevskij, ma si rivolgevano al pubblico di Pietralata, non ai lettori di Delitto e castigo». Lei con C’è tempo a chi si rivolge? «A chi ancora alza gli occhi se vede un arcobaleno». Un’ultima cosa: moriremo sovranisti? «No, ci accorgeremo che non è questa la via e la dimensione globale del mondo troverà nella democrazia il modo di rispondere al bisogno di sicurezza che ora premia il sovranismo». Quando accadrà? «Molto prima del previsto, la politica corre velocemente e i suoi cicli sono più rapidi: la stessa insofferenza che genera il tuo successo, genera il tuo insuccesso. Non basta aspettare. Bisogna non smettere di impegnarsi e di sognare. Forse non molto, ma c’è ancora tempo».