Il gentil corrotto
Ogni società nasce da un atto di sangue, quindi si regola con la brutalità, poi con la corruzione e, quando dalla corruzione è pervasa, la società illanguidisce e muore.
Sangue, brutalità, corruzione: non è conosciuto un quarto stadio. Roma scaturisce da un fratricidio (Romolo uccide Remo), si fertilizza col ratto delle Sabine, leggenda riassuntiva delle razzie brutali con cui Roma esprime forza e da cui ne trae, evolve nella corruzione (il passaggio dalla repubblica all’impero è illuminato da uno dei più grandi corrotti e corruttori della storia, Giulio Cesare, le cui glorie giunte a noi non hanno mai a che fare con la sua bulimica disonestà), e infine si abbandona a una corruzione pressoché esistenziale, non più una semplice questione di bustarelle, cioè lo scheletro che regge i muscoli e il corpo dell’Urbe, sono proprio corrotti fino al midollo, i palazzi meravigliosamente affrescati, l’arte dell’eloquenza, il diritto elevato a filosofia, i vini magnifici, i banchetti appunto luculliani, i ragazzi raccontati da Giovenale che sfrecciano sulla via Flaminia a esibire i carri nuovi – a far colpo sulle pupe! –, l’intera città riluce di splendore e i poveri sono di meno e sono meno poveri: insomma nessuno ha più l’energia per impugnare un’arma, la società ha perduto di vitalità, è corrottissima e dunque al suo massimo di civilizzazione, non sa più difendere la vita perché sa soltanto adornarla. E lì arrivano i barbari. E tutto ricomincia.
Pensate all’Unione Sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre, la strage dei Romanov a Ekaterinburg, la brutalità delle purghe leniniste, subito, poi perfezionate nell’orrido gelo del gulag staliniano a tappeto, si vuole precisamente fondare una società perfetta, pura (tenete a mente l’aggettivo), in cui la corruzione non esiste perché semplicemente non ce n’è bisogno: ognuno avrà quanto deve avere, né qualcosa di più né qualcosa di meno. E questa sete di purezza – spietata, violentissima – si placa progressivamente, la struttura burocratica sovietica prorompe, laddove c’è burocrazia c’è corruzione, da Stalin in poi i capi della rivoluzione, dal capo del più periferico dei kolchoz al capo del Cremlino, mettono su la più spettacolare piramide della corruzione moderna: il popolo continua a stare male, ma ormai di rado viene prelevato di notte dal Kgb per essere destinato alla farsa del processo, all’orrore siberiano, a una pallottola in nuca nei sotterranei della Lubjanka; i detentori del potere preferiscono sublimarsi nel caviale che nell’oppressione. E poi? E poi basta, fine, dissolvimento. Non vi si annoierà con altri esempi, l’Italia repubblicana nata sul corpo di Mussolini a piazzale Loreto, la Francia democratica nata a place de la Concorde con la testa del re che rotola nel cesto. Ci serve invece la sintesi di Bernard Mandeville, filosofo olandese nato nel 1670, cresciuto in Inghilterra, filosofo libertino e immoralista pertanto disinteressato alla vanagloria della reputazione, che dice: «Volete essere puri? Sarete dei selvaggi» (avete tenuto a mente l’aggettivo?).
Prima del gran finale serve, come sempre, la premessa: la corruzione è brutta, è sporca, è cattiva, ma è dato il fatto che non è stata debellata – come la malattia e la mortalità dell’uomo – e che essenzialmente è il rifiuto dell’assassinio. E non seguirà la critica, ma la più distaccata delle analisi: i ragazzi dei Cinque stelle con ogni evidenza non sono corrotti, né sono partiti dall’atto di sangue, perché non ne hanno la struttura, sono partiti da un più contemporaneo e ingentilito vaffanculo. Ora riversano le loro colpe sui padri, gli impongono la gogna pubblica via Facebook, calunniano in procura i fidanzati, si inventano aggressioni nei parcheggi dei supermercati, sono in una fase attenuata di brutalità, e per concludere: non sono corrotti perché è uno stadio evolutivo a cui non sono ancora arrivati. * editorialista de La Stampa