Christopher Abbott VI RICORDO QUALCUNO?
Dicono che sia il nuovo George Clooney. La somiglianza fisica è impressionante (googlare dottor Ross per credere). L’esordio di carriera, identico: una lunga gavetta, poi, a 33 anni, una serie tv che cambia la vita. Per Abbott la fiction-trampolino è Catch-22 che, guarda un po’, Clooney dirige e produce. C’è un aspetto, però, in cui i due attori non potrebbero essere più diversi: lo sguardo. Christopher è malinconico. Forse perché pensa spesso a qualcosa di triste
George Clooney lo osserva e lo sguardo, al di là delle prese in giro di rito, è quello di un genitore orgoglioso. Christopher Abbott non solo è il protagonista della serie Catch-22 (in onda su Sky Atlantic), ma è chiaramente il suo pupillo.
È stato Clooney a fargli il provino, a sceglierlo, «perché trovare il giusto attore per interpretare Yossarian era determinante per la riuscita del progetto», e sempre lui non ha perso occasione per promuoverlo come «uno dei migliori giovani attori in circolazione».
Troppo per trattarsi dei soliti complimenti che attori e registi si scambiano in occasione della promozione.
Tanto più che Clooney a questa serie ci crede davvero. L’ha prodotta e diretta ed è abbastanza navigato per aver previsto che sarebbe stata «venduta» come il suo ritorno in tv nonostante interpreti un ruolo molto minore e molto divertente, quello del tenente Scheisskopf, un fissato delle marce, insomma un simbolo dell’idiozia della vita militare.
Abbott potrebbe davvero essere suo figlio, non solo per i 25 anni di età che li separano ma perché a vederli così, seduti fianco a fianco, la somiglianza è impressionante. Stessi capelli – quelli di Clooney sono ormai grigi ma cercate una sua foto di quando aveva
trent’anni –, stessa barbetta, simili gli occhi e la forma delle labbra.
Diversissimo, in compenso, è lo sguardo. Diretto e spavaldo quello di Clooney, obliquo e malinconico quello di Abbott. Il quale, viene fuori dopo un po’ che parliamo, vive all’insegna del memento mori.
Proprio come il bombardiere John Yossarian di Catch-22, in italiano Comma 22, che è anche il titolo del romanzo di Joseph Heller da cui è tratta la serie. Un libro-feticcio per il movimento pacifista americano, pubblicato nel 1961 e adottato come inno anti-militarista durante la guerra in Vietnam, ora tornato in libreria edito da Bompiani.
Se il suo personaggio è ossessionato dall’idea che non riuscirà mai a sopravvivere al numero di missioni richieste dal regolamento per ottenere un congedo, Abbott ha elaborato un suo metodo per spremere il meglio dalla comune prospettiva di mortalità. «La verità è che non a tutti è concesso di invecchiare. Fin da piccolo ho visto tante persone morire, i miei nonni, alcuni compagni del liceo. Ne parlavo un giorno sul set con il mio amico, l’attore Rafi Gavron: “Quella là fuori è una terra di banditi, possono eliminarti da un momento all’altro”, ha detto ridendo. Ma, battute a parte, davvero non sappiamo che destino ci attende. La vita è breve,
e potrebbe finire quando meno te lo aspetti, un motivo in più per apprezzarla. Penso alla morte non perché abbia paura, ma perché bramo la vita. Come Yossarian. Il problema per entrambi non è sapere che accadrà, il punto è il come e il perché. Lui non avrebbe nessun problema a morire mentre si sta divertendo con la sua ragazza, ma non accetta che la fine arrivi per via di una trappola burocratica».
Trentatré anni come George Clooney quando divenne il dottor Ross della serie E.R. - Medici in prima linea, Abbott è nella stessa situazione in cui si trovava il suo mentore allora: nonostante abbia iniziato a fare l’attore da una dozzina di anni, Catch-22 è la sua occasione per passare da una condizione di semi-anonimato al successo, con tutte le opportunità che seguiranno.
Su quella che è stata la sua vita prima di trasferirsi a New York per studiare all’HB Studio, centellina le informazioni. «La mia
famiglia è in parte di origine italiana. I genitori di mia madre sono di Cosenza».
Catch-22 è stato interamente girato in Italia, tra la Sardegna e Roma, ma Abbott, che reggeva sulle spalle gran parte della storia, tanto che alcuni giorni non aveva neppure il tempo di allontanarsi dal set per cambiare gli abiti di scena, ha dovuto rimandare il suo piano di farsi un giro nel Paese dei suoi avi: «Pensavo che avrei approfittato di qualche fine settimana per visitare Venezia e altri posti, ma ero troppo stanco, dovevo dormire». Il cinema, racconta, lo ha sempre amato da spettatore. «Ho
lavorato per un po’ in un negozio di video e potevo prendere in prestito un sacco di film. Quelli che mi piacevano avevo l’abitudine di rivederli non so quante volte. Mai avrei pensato di fare l’attore». Non fino ai vent’anni. «Durante l’università, mi iscrissi quasi per caso a un corso di recitazione e capii che potevo farlo. Ma mi ha aiutato molto anche l’incoraggiamento degli altri. Soprattutto all’inizio non puoi dirti da solo che sei bravo».
Il suo debutto è stato a teatro. «La prima volta che mi hanno pagato per recitare credo sia stata nel 2008. Che posso dire? Ho lavorato tanto, ma ci sono stati anche periodi in cui ero disoccupato. Cominciare sul palcoscenico è stato un bene: a teatro puoi concederti un mucchio di errori di cui non resterà traccia».
Il cinema è arrivato con piccoli film indipendenti e, poi, nel 2012, l’occasione di un ruolo in una serie di enorme successo come Girls. Interpretava Charlie Dattolo, il fidanzato perdutamente sdolcinato di una delle protagoniste. Due stagioni, quindi la decisione – all’epoca suicida, oggi coraggiosa – di andarsene. Perché? «Per una serie di motivi. Il più importante, me ne sono reso conto a posteriori, è che non mi piace rimettermi più volte nei panni dello stesso personaggio. Come succede nella vita, si cresce, si cambia.
Non mi va di tornare sui miei passi». Che cos’altro non gli piace? «L’attesa. Quando fai un provino e passano le settimane, i mesi senza che nessuno ti contatti. “Mi hanno preso, non mi hanno preso?”. Secondo me lo sanno già. E, allora, ditemelo: meglio un no che niente, così posso guardare avanti».
Quando gli chiedo se si sia mai trovato in una situazione vagamente simile a quella di Yossarian, ostaggio di regole
senza senso, sorride per la prima volta. «Niente che potesse decidere tra la vita e la morte, ma, forse, quando ho dovuto occuparmi delle pratiche per l’assicurazione sanitaria. Era scaduta e avrei voluto pagare gli arretrati. Prima, però, ho dovuto mandare una lettera per chiedere l’autorizzazione. Davvero devo chiedere il permesso per potervi dare dei soldi?».
Cominciare sul palcoscenico è stato un bene: a teatro puoi concederti un mucchio di errori di cui non resterà traccia
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