Vanity Fair (Italy)

TENTAZIONE O SALVEZZA

- di FERDINANDO COTUGNO foto ANNIE LEIBOVITZ

Un bravo ragazzo con il massimo dei voti si lascia trascinare dagli amici in una rapina: in una canzone, quel rimanere sospeso che ha salvato la vita a Kendrick Lamar e scritto la storia della musica (Pulitzer inclusi). A 10 anni dal primo EP, solo un problema: non avere sbagliato niente

Dieci anni fa, alla fine del 2009, un ventenne cresciuto nell’angolo più violento di Los Angeles rinunciava allo pseudonimo che aveva usato fino a quel momento (gli amici lo chiamano ancora così: K. Dot) e pubblicava il primo EP col suo vero nome: Kendrick Lamar. Inizia così la vicenda discografi­ca più importante di questo decennio nel mondo dell’hip hop (quindi, per certi versi: della musica pop in generale), una storia che avrebbe interessat­o i Grammy, gli Oscar, il Pulitzer, la Casa Bianca e che avrebbe portato K. Dot a essere paragonato a Bob Dylan, Miles Davis, James Joyce. Negli anni ’80 e ’90, Compton era uno dei posti più pericolosi dove nascere negli Stati Uniti: ci sono state annate in cui il tasso di omicidi pro capite era il più alto del Paese, la città era attraversa­ta da una guerra quarantenn­ale tra gang e la sala mortuaria ancora oggi ha i vetri antiproiet­tile. Kendrick (che si chiama così in onore di Eddie Kendricks dei Temptation­s) nasce qui nel 1987, cresce in un complesso di case popolari, è uno scolaro brillante (una maestra convocò sua madre per raccontarl­e che quel bambino di otto anni aveva usato la parola audacia, audacity). Intorno a lui la gente si ammazza e fiorisce il gangsta rap (che sta a Compton come il grunge a Seattle), i suoi amici iniziano il percorso che li porterà in prigione o al cimitero, mentre lui rimane sospeso in quel punto a metà tra il dovere di essere come gli altri e la voglia di salvarsi per conto suo. Gli homie, gli amici, o l’audacia. Oppure, per usare uno dei suoi versi, It go Halle Berry or Hallelujah, tentazione (con l’attrice come incolpevol­e metafora) o salvezza.

Questa storia, il ritratto dell’artista povero e nero da giovane, è stata raccontata in Good Kid, M.A.A.D City, il primo lavoro discografi­co maturo di Kendrick Lamar, quello che è piombato sull’hip hop e le sue contraddiz­ioni come una profezia. Mentre la musica dei neri si perdeva nell’elencarne le ambizioni (i soldi, le armi, l’oro, le donne, le macchine), il ragazzino la riportò al suo compito originario: la verità delle inner city, i ghetti urbani dove quelli come lui erano rinchiusi. Era il 2012. Kendrick Lamar aveva 25 anni e gli afroameric­ani si accorsero che qualcuno stava raccontand­o la loro storia.

«Attraverso la sua musica ridivento un ragazzino in difficoltà nell’inner city, e allo stesso tempo imparo tutte le lezioni che mi hanno fatto diventare l’uomo che sono. Quando ascolto l’ultimo verso di Black Boy Fly, so esattament­e cosa vuol dire, perché quel ragazzino ero io», ha detto LeBron James, il più famoso giocatore del basket Nba, che ha tre anni in più di K. Dot ed è cresciuto ad Akron, Ohio, ma l’America, per quelli come lui, è stata uguale in ogni Stato per generazion­i: incarceraz­ione di massa, padri in galera, violenza, gang, crack e la sovrumana combinazio­ne di risorse personali che serviva per resistere alla tentazione della rabbia e trovare una strada: Halle Berry or Hallelujah. Parla di questo Black Boy Fly: vedere dei ragazzi del tuo quartiere farcela e avere il terrore che saranno gli ultimi, che tu invece rimarrai intrappola­to lì dentro. «Non ero invidioso del loro talento, ero solo terrorizza­to che fossero gli ultimi neri a volare via da Compton», dice l’ultimo verso di cui parla LeBron.

The Art of Peer Pressure invece racconta una rapina, in prima persona. Non si devono mai mischiare la voce narrante e la biografia dell’artista, ma è sicurament­e un resoconto vivido, di chi sa bene di cosa parla. Un bravo ragazzo, col massimo dei voti e la madre che prova a telefonarg­li e lui che pensa: forse dovrei dirle che sto per commettere il mio primo reato. Effrazione, furto, fuga, svolta a destra, svolta a sinistra, non ci sono poliziotti in vista: «Un’altra notte fortunata insieme agli amici». Un disco invece della galera.

Quattro dei suoi cinque album sono usciti mentre alla Casa Bianca c’era un presidente nero, l’ultimo dell’era Obama è To Pimp a Butterfly, il più politico della sua carriera. Good Kid, M.A.A.D City era l’autobiogra­fia di un ragazzo, To Pimp a Butterfly è la biografia di un intero popolo, è un affresco collettivo, ci sono tutte le facce e le sfumature dell’essere stati o essere neri in America.

Nessuno (né della prima generazion­e del rap, né tanto meno Jay-Z o Kanye West) aveva tentato un’operazione così ambiziosa e letteraria. Wesley Snipes (e come lui Lauryn Hill) in carcere per evasione fiscale, Michael Jordan e Trayvon Martin, uno dei tanti ragazzi uccisi dalla polizia senza motivo. Alright divenne inno da cantare e mantra da recitare nelle manifestaz­ioni del movimento Black Lives Matter, Obama invitò K. Dot a esibirsi alla Casa Bianca il 4 luglio. Il ragazzo che raccontava con candore un’effrazione con scasso finisce quattro anni dopo a tavola col presidente. Halle Berry or Hallelujah.

La presidenza Trump inizia il 20 gennaio 2017, il 14 aprile esce DAMN., il suo quinto album. Qualcuno si aspettava un lavoro ancora più politico, invece Kendrick guarda dentro se stesso, costruisce una versione hip hop di Inside Out, il film della Pixar nel quale cinque emozioni antropomor­fe coabitano e si contendono la testa di una ragazzina. K. Dot scompone se stesso in elementi fondamenta­li, i titoli delle canzoni sono in maiuscolo e seguiti da un punto, BLOOD., DNA., PRIDE., LOVE., LUST., FEAR., sangue, Dna, orgoglio, amore, lussuria, paura. È il suo album più accessibil­e e quello che lo trasforma e certifica come una pop star in grado di collaborar­e con Bono e Rihanna (e con Beyoncé su Lemonade), anche perché la sua tavolozza musicale negli anni si è ampliata sempre di più: il soul e il jazz si sono aggiunti al talento puro per la melodia (ascoltate Swimming Pools e provate a non cantarla) e alla sua capacità di modificare e modulare la voce per interpreta­re diversi personaggi all’interno della stessa storia. La verità non serve a niente senza il talento. Con DAMN., Kendrick Lamar ha vinto il Pulitzer per la

musica nel 2018. La prima edizione era stata assegnata al compositor­e William Schuman, da allora era stato appannaggi­o della classica e del jazz. «Una raccolta di canzoni virtuosist­iche, unite dall’autenticit­à vernacolar­e e dal dinamismo ritmico, che offrono ritratti in grado di catturare la complessit­à della moderna vita afroameric­ana», recitava – con quel tipico linguaggio ingessato – la motivazion­e, che ha fatto la storia quanto il Nobel a Bob Dylan.

Aggiungete all’equazione: quasi 18 milioni di album venduti, 29 nomination ai Grammy (con dodici vittorie) e una agli Oscar (per la colonna sonora di Black Panther) e il risultato sarà una domanda:

e ora? Kendrick Lamar ha un problema, ora: ha quasi trentadue anni e non ha ancora mai sbagliato niente. Ha lasciato Compton e trasferito la famiglia a Malibu, ma senza sfarzo e ostentazio­ne. Sta con la fidanzata del liceo, Whitney Alford. Parla poco con la stampa, le sue interviste sono una rarità. Un sesto album è nell’aria da mesi, potrebbe piombare senza annunci in qualsiasi momento, nell’anno che apre un nuovo ciclo elettorale e porterà alle elezioni, in un’America che è più fratturata che mai.

«Ho solo 28 anni, ho la testa piena di milioni di idee, ma diventare un uomo, crescere, è un processo che non si ferma mai, mi serve ancora tempo», disse nell’intervista che concesse a Vanity Fair Italia quattro anni fa. «Il filo che mi lega a chi mi ascolta è la libertà. Io condivido quello che ho imparato finora, ma anche i miei difetti di progettazi­one come essere umano. E non punto mai il dito, non dico mai cosa devono fare, cosa non devono fare. La vita è un’esperienza che va abbracciat­a nella sua interezza».

Il filo che mi lega a chi mi ascolta è la libertà. Io condivido quello che ho imparato, ma anche i miei difetti di progettazi­one come essere umano

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UNA CARRIERA CON L’ACCELERATO­RE Lamar in una Buick LeSabre del 1985, fuori dall’Expo Center di NEW YORK.

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