Vanity Fair (Italy)

T come tabù

- Eshkol Nevo – VOCABOLARI­O DEI DESIDERI

ESHKOL NEVO

Mi raccontava degli amici che le avevano chiesto di diventare la loro ragazza. O di com’era avere le mestruazio­ni per la prima volta. Io non avevo ancora niente da raccontare. Perciò ascoltavo, annuivo e facevo domande. Fra noi regnava un’intimità distesa, senza sforzo, che non condividev­o con nessun’altra ragazza, ma poi, nell’estate fra la seconda e la terza media, si è compiuta la metamorfos­i. Di colpo, non potevo più stare in sua compagnia senza desiderare. Gli occhi correvano alla scollatura della sua camicetta e le dita volevano sfiorare le ciocca chiara di capelli che si era liberata dalla coda, cercavo continuame­nte di farla ridere per vedere quel suo sorriso imbarazzat­o, che spuntava dall’angolo della bocca, ho smesso di portare la tuta o il costume in sua presenza perché non notasse che a volte…

E proprio quell’estate sua madre ha proposto che restasse a dormire da noi. Cosa potevo dire. Ho estratto il letto sotto il mio. Sono uscito dalla camera per lasciarle indossare il pigiama. Sul suo pigiama c’erano disegnate delle fragole. Me lo ricordo. Un mucchio di fragole.

Abbiamo chiacchier­ato un pochino con la luce accesa, poi ha detto che era un po’ stanca e ha chiesto di spegnere la luce. Ho spento la luce e ascoltato i suoi respiri.

Non dormiva.

Il suo odore arrivava alle mie narici, odore di pigiama misto all’odore del corpo misto all’odore dei capelli misto all’alito. Non ce l’ho fatta a resistere oltre. Le ho detto, con voce tremante, sono innamorato di te. E lei ha detto, ma… siamo cugini. E io ho detto, e allora? E lei ha detto, i nostri figli avranno sette dita per mano. E io ho detto, non è così terribile. E lei ha detto, saranno ciechi. E io ho detto, gli vorremo bene ugualmente. E lei ha preso un respiro profondo e detto, potremmo addirittur­a avere un bambino con due teste.

E io ho detto, due teste?

E lei ha detto, sì, ho visto la fotografia di un bambino così. Sul giornale. Faceva spavento.

E io ho detto, davvero? E ho riacceso la luce. Perché il bambino con due teste che avevo immaginato mi aveva messo una paura tremenda. E lei ha detto, davvero davvero. E io ho detto, lascio la luce accesa per un pochino, d’accordo? E lei ha detto, d’accordo. Pochi minuti dopo si è addormenta­ta.

Adesso, trent’anni dopo, siamo seduti su due sedie di plastica davanti al mare. Durante la vacanza estiva della famiglia allargata. Succede sotto i nostri occhi. Cioè, hanno sempre adorato giocare insieme, mia

figlia e suo figlio. Ma quest’estate si compie la metamorfos­i. Sono più giovani di quanto fossimo noi, ma nella loro generazion­e tutto avviene prima. Lei gli spruzza addosso l’acqua e lui cerca di affogarla, ma la lascia andare un secondo prima che diventi pericoloso.

Nuotano fino all’acqua profonda coordinand­o le bracciate e poi tornano e si fermano uno davanti all’altra a parlare, con gli occhi che brillano. Noi li guardiamo. Per diversi minuti, senza commentare. Ci limitiamo a strappare un acino dopo l’altro dal grosso grappolo d’uva posato fra di noi, in una ciotola.

Prima o poi gli dobbiamo mostrare la fotografia, dico alla fine.

Quale fotografia?, mi chiede lei. Senza distoglier­e gli occhi dai ragazzi. Del bambino con due teste, dico io. Tace, fa quel suo sorriso che spunta dall’angolo della bocca e poi dice, non esiste davvero. Il bambino con due teste. E mi posa la testa sulla spalla.

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