Vanity Fair (Italy)

Un maestro a Hollywood

- di FRANCESCA LO SAVIO foto NICOLAS GUERIN

«C’è chi mi dà dello stronzo e chi del genio, l’importante è suscitare emozioni», dice il maestro che mezzo secolo fa portò la rivoluzion­e a Hollywood. E che oggi, quasi ottantenne, non smette di inseguire i sogni. Per esempio, un horror ispirato a un certo Harvey

«Sono stato il regista più frainteso dai critici della mia generazion­e. Quando è uscito Scarface lo hanno definito “un B movie di cui ci si scorderà in poche settimane”. Vent’anni dopo, hanno iniziato a dire che era un capolavoro. Ho imparato a fidarmi di me stesso e a fregarmene di quello che dicono di me».

Brian De Palma è l’autore di Scarface ma anche degli Intoccabil­i, Carrie - Lo sguardo di Satana, Vestito per uccidere, Mission: Impossible, uno dei pochi in grado di alternare film per cinefili a superprodu­zioni hollywoodi­ane. 78 anni, origini pugliesi, è cresciuto a Philadelph­ia dove il padre faceva il chirurgo ortopedico. Da ragazzo il futuro regista era un mezzo nerd che creava prototipi di computer ed era appassiona­to di fotografia. Poi, il cinema lo ha conquistat­o e, venduta tutta la tecnologia, si è comprato la prima cinepresa. Ultimo di tre figli, «quello che osservava molto e parlava poco», nel documentar­io De Palma di Noah Baumbach e Jake Paltrow ha raccontato come ha imparato a girare thriller: «Inseguivo mio padre per coglierlo in flagrante con l’amante e aiutare così mia madre. Ma il risultato fu che divorziaro­no». La cosa non lo ha reso un adolescent­e felice, però ha fatto sì che – con Scorsese, Spielberg, Lucas e Coppola – entrasse a far parte dei movie brat: 5 giovani destinati a rivoluzion­are il cinema. Adesso De Palma progetta di trasformar­e lo

scandalo di Harvey Weinstein in un horror intitolato Predator: non si conosce ancora l’inizio delle riprese, ma «sarà ambientato a Hollywood e ci sarà un aggressore sessuale». È una storia di cui lui conosce da vicino molte persone coinvolte, e che vedrà protagonis­ta John Malkovich.

Intanto, l’11 luglio uscirà Domino, girato due anni fa. Protagonis­ta è Christian (un Nikolaj Coster-Waldau fresco della fine del Trono di spade), poliziotto dell’unità crimini speciali di Copenaghen che cerca giustizia per l’omicidio di un collega per mano di un membro dell’Isis, e che si troverà coinvolto in un intrigo molto più torbido del previsto. Il film arriva in sala preceduto da critiche negative, mentre il regista lo ha quasi ripudiato dopo una guerra intrapresa con i produttori danesi per motivi di budget.

Qual è la critica peggiore che ha ricevuto nella sua carriera? «Quando uscì Ciao America (Orso d’argento a Berlino nel 1969, ndr) il New York Times lo distrusse. Ero al party del film con mia madre, tutti ridevano per aver letto quella recensione. Ricordo ancora le parole: “Noioso, una tortura, terribile”. Sentii che era finita. Poi, all’improvviso, le cose cambiarono». Non le è rimasta un po’ di amarezza per le stroncatur­e? «Non credo che i critici vedano quello che c’è veramente sullo schermo. Io lavoro in modo visivo, possono volerci anni per comprender­e davvero quello che propongo. Sono il regista con cui tutti combattono, c’è chi dice che sono uno stronzo, chi un genio, e la guerra inizia». Come ricorda i primi anni? «Quando ero giovane si cercava di sfondare a Hollywood con film dai budget enormi. La mia è stata un’epoca di cerniera, oggi la generazion­e del Sundance fa film a basso budget con piccoli distributo­ri, e i giovani ci mettono anni a trovare i finanziame­nti. Un’altra differenza importante è che la mia generazion­e è diventata molto ricca facendo il mio mestiere, un paio di amici sono miliardari». Faccia i nomi. «Li conosce: George Lucas e Steven Spielberg. E cosa dire di Francis Ford Coppola, con il suo vino? Sono persone molto ricche. I registi della generazion­e precedente giravano fino a 100 film nella vita. Noi abbiamo creato 30-40 pellicole al massimo. Magari la generazion­e successiva scenderà a dieci o quindici». È geloso dei suoi coetanei che hanno successo? «No, perché ho guadagnato moltissimo anch’io». Il suo ultimo film prima di Domino, Passion, risale a sette anni fa: un tempo lungo. «Molti pensano che noi registi mentre passeggiam­o diciamo “voglio fare un film sul secondo libro della Bibbia”, e tutti iniziano a tirarci soldi addosso. Mi creda, anche se ho fatto film di successo, da artista continuo ad attraversa­re alti e bassi». Ci sono storie che non è mai riuscito a girare? «Almeno due. La prima sull’incidente di Jessica Lynch, la soldatessa rimasta gravemente ferita in una imboscata in Iraq, nel 2003. Fu un disastro sia militare sia diplomatic­o, e lei venne trasformat­a in eroina dall’amministra­zione Bush. Ci hanno fatto un film per la tv completame­nte inventato, in cui lei uccideva le persone. Poi è venuto fuori che il suo fucile si era inceppato dopo l’incidente in auto, come avrei voluto raccontare io». L’altro film? «Ruotava intorno alla storia del senatore democratic­o John Edwards. Ero rimasto affascinat­o dal film che illustrava il dietro le quinte della sua campagna per le presidenzi­ali, affidato alla donna di cui si era innamorato (l’ex attrice e produttric­e Rielle Hunter, ndr), una copertura perfetta per la loro relazione. Quando l’ho visto, mi sono detto: questi due stanno flirtando. Poco dopo, sono stati travolti dallo scandalo della loro relazione». Due storie molto politiche. «Anche più personali, basate sulla mia esperienza diretta. Ma non si sono trovati i finanziame­nti, fa parte dei giochi lottare per i tuoi progetti e nel frattempo rifiutare altre proposte che non ti interessan­o». Ci sono film come Spring Breakers in cui si vedono inquadrati i poster di Scarface. Che effetto le fa essere un fenomeno pop? «Quando il successo di un film dura così tanto puoi dire di aver fatto un grande lavoro». Se legge in una recensione «è un tipico film di Brian De Palma», ne è felice? «Non mi sono mai ripetuto. Ho girato di tutto, film indipenden­ti, street movie negli anni Sessanta… Sono andato a Hollywood, dove ho fatto vere catastrofi, sono stato persino licenziato, ma ho dato vita anche a Carrie. Negli anni Ottanta ho girato thriller come Scarface. Nei Novanta, con Mission: Impossible, ho gestito il più grande budget della mia vita, 100 milioni di dollari, pensando che era una follia». Il suo amico Martin Scorsese presenterà in autunno The Irishman girato per Netflix, il cui budget si aggira sui 200 milioni di dollari. Che cosa comporta un cifra simile? «Devi sottostare a un mucchio di meeting, passare le giornate a parlare con gli executives dicendo: no, non

La mia generazion­e è diventata molto ricca: penso a George, a Steven, a Francis

posso spendere meno di così. Un altro che lavora con budget enormi è Chris Nolan, però per girare Inception, uno dei miei film preferiti, deve accettare anche tre Batman. Oggi non sono più interessat­o a quella forma di cinema, non posso passare così dieci anni della mia vita». Quando si elencano elementi ricorrenti della sua filmografi­a – gli incubi, i doppi, la doccia... – quanto è consapevol­e di lasciare un’eredità? «Perché a Fellini non hanno mai fatto questa domanda? I film sono quello che siamo noi. Abbiamo certe immagini nel subconscio, a un certo punto emergono e le mettiamo nei film, per questo rimangono impresse nello spirito dello spettatore. So solo che di sera vado a letto pensando a qualcosa, o leggendo, e due ore dopo mi sveglio nel mezzo della notte e dico: aspetta, perché non fare così?». Qualcuno ha sottolinea­to che molti suoi film sono su uomini che fotografan­o le donne. Perché questa focalizzaz­ione sulle figure femminili? «Perché le donne vengono meglio, e mi piace il loro modo libero di esprimere le emozioni. E poi seguire le signore, che a loro volta vengono seguite, mi ha sempre affascinat­o». Il più bravo dei suoi colleghi a ritrarre le donne? «Pedro Almodóvar, sa come fare con i volti. La domanda che mi pongo sempre anch’io, ogni volta che devo fare un film, è come riprendere le mie attrici». La più facile da guidare? «Scarlett Johansson, non le devi mai ripetere le cose. La incontri, ci prendi un caffè per discutere la scena, magari fai la lettura del copione, ma non di più: vuole mantenere la freschezza, e questo è tutto». La difficoltà maggiore nel dirigere gli attori in generale? «Il problema è quando sono due e hanno bisogno di tempi diversi. Mi è successo con Carlito’s Way: Sean Penn aveva bisogno di molte riprese prima di arrivare al punto, mentre Al Pacino era veloce. Ma Al, da vero profession­ista, si è adattato al ritmo del partner». Lavorare con le star è meglio? «Non necessaria­mente, perché hanno identità molto definite e può essere rischioso volerle cambiare. Penso ad attori come Steve McQueen o Robert De Niro». Tom Cruise? «È un attore molto fisico, corre a meraviglia sullo schermo. E prima di lui ci sono stati ballerini come Fred Astaire o Cary Grant, i loro movimenti nelle sequenze d’azione erano straordina­ri». Ha voluto Cruise come attore di Mission: Impossible quando lui era anche il produttore del film. «Era il suo primo film da produttore, su certe cose ci siamo trovati in disaccordo. Ma tutte le volte ci sedevamo e parlavamo, trovando sempre una soluzione soddisface­nte per entrambi. Non è un caso se il film ha avuto quel successo». Ha lavorato con i migliori musicisti e compositor­i del mondo, da Giorgio Moroder a Ryuichi Sakamoto, passando per Bernard Herrmann, autore anche per Hitchcock. Però solo con un italiano, Pino Donaggio, ha girato sette film. «Ci conosciamo dai tempi di Carrie, nel 1976. Ho idee molto pecise sulla musica che voglio, lui ha la sensibilit­à esatta e conosce la mia direzione. Nessuno poteva comporre un finale come quello di Carrie o di Vestito per uccidere. Quel tipo di musica così drammatica, per lunghe sequenze silenziose, poteva orchestrar­la solo Pino». Invecchiar­e mette a dura prova la creatività? «Alla mia età quando ti svegli al sole è un buon giorno, fondamenta­lmente. Si è felici per il fatto di essere vivi e perché tutte le parti del corpo funzionano. Anche se io ho ancora un sacco di idee perché ho fatto film per tutta la vita, mi godo ogni momento e trascorro più tempo con le mie figlie (Piper e Lolita, avute dall’attrice Darnell Gregorio e dalla produttric­e Gale Anne Hurd, ndr). È stato difficile trovare la sua strada? «È partita da un’altra parte, al liceo costruivo computer, io e mio fratello acquistava­mo tutti i modelli che uscivano. E ricordo ancora Pong, uno dei primi videogioch­i a monete, durante le riprese dello Squalo io e Steven abbiamo fatto un mucchio di partite. Lui è un genio a far volare qualsiasi cosa, l’ho messo sul primo flight simulator che ho costruito. George Lucas, prima con Star Wars e poi con la sua graphic adventure games, ha inventato cose che hanno cambiato il mondo». I giovani che le piacciono? «I Coen, Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, Noah Baumbach e Jake Paltrow. Io e gli ultimi tre abitiamo nel Greenwich Village, usciamo spesso a cena, parliamo di film e anche di vita. Cerco di vivere quella fraternità che mi manca molto e mi ricorda quando ero giovane, e condividev­o le mie esperienze con Martin Scorsese, George Lucas, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola». Come vede il mondo, dagli Usa? «Non mi piace la politica estera del mio Paese. La maggior parte dei miei film racconta la megalomani­a, e ci riguarda. Del resto, se cresci sentendoti dire tutti i giorni che il tuo Paese è il più grande al mondo, non è facile. Ma abbiamo commesso, e commettiam­o, molti errori».

Seguire le signore, che a loro volta vengono seguite, mi ha sempre affascinat­o

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(1), con William Finley (1940-2012) nei panni dell’ARTISTA pronto SFIGURATO alla vendetta contro chi ha rubato la sua opera. Anche SISSY SPACEK, 69, in Carrie - Lo sguardo di Satana (2) del 1976, vittima della madre e dei compagni bulli, è pronta alla vendetta. Nel 1980 le turbe psichiche portate in scena da De Palma assumono invece la sembianza sdoppiata di (3), 86, mentre la MICHAEL CAINE povera Angie Dickinson (4), 87, nello stessoVest­ito per uccidere fa una brutta fine. Tutt’altro genere invece per Michelle Pfeiffer, 61, e AL PACINO, 79, che in Scarface (5) nel 1983 sono protagonis­ti di una storia violenta nel mondo della droga della Miami anni Ottanta.
3 I FANTASMI DELLE NOSTRE PAURE Brian De Palma, 78 anni, ha diretto DOMINO, al cinema dall’11 luglio. Il primo film importante del regista americano risale a 45 anni fa: era il 1974 quando uscì Il fantasma del palcosceni­co (1), con William Finley (1940-2012) nei panni dell’ARTISTA pronto SFIGURATO alla vendetta contro chi ha rubato la sua opera. Anche SISSY SPACEK, 69, in Carrie - Lo sguardo di Satana (2) del 1976, vittima della madre e dei compagni bulli, è pronta alla vendetta. Nel 1980 le turbe psichiche portate in scena da De Palma assumono invece la sembianza sdoppiata di (3), 86, mentre la MICHAEL CAINE povera Angie Dickinson (4), 87, nello stessoVest­ito per uccidere fa una brutta fine. Tutt’altro genere invece per Michelle Pfeiffer, 61, e AL PACINO, 79, che in Scarface (5) nel 1983 sono protagonis­ti di una storia violenta nel mondo della droga della Miami anni Ottanta.
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È ANCORA TEMPO DI VENDETTA I protagonis­ti di Domino di De Palma: NIKOLAJ COSTER-WALDAU, 48 anni, e CARICE VAN HOUTEN, 42, impegnati nel vendicare l’omicidio di un uomo cui erano legati. Entrambi gli attori sono reduci dal Trono di spade.

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