L’ESTATE INFINITA DI AYRTON SENNA
«Bisogna dare a tutti una possibilità». Era il mantra e la missione del pilota più amato, così irraggiungibile (in pista), così vicino a noi: a 25 anni dalla tragica morte, la sua corsa non si è più fermata
Come nessun altro. Come ciascuno di noi. C’è qualcosa di straordinario, curioso, rarissimo che mantiene Ayrton Senna nell’aria, nei pensieri, nella tenerezza che cerchiamo giorno dopo giorno, senza nemmeno dirlo, senza farci caso. È un’espressione sofferta del viso, è una frase che contiene uno straniamento, è il ricordo di quello schianto, di una fine tanto inattesa quanto nitida, teletrasmessa. Uno schiaffo. Perché fu silenzio e fine contro frastuono e intensità da motorismo, velocità e rumore prima del sangue, ciò che ha composto il mito contraddittorio e novecentesco delle corse. Perché Senna era il capo, un gran figo, protetto dall’ammirazione, dalla propria furia, da un talento invulnerabile. Perché come era è rimasto, anni trentaquattro, 1° maggio 1994, Imola, il posto. Come diceva Lucio Dalla: un luogo, un momento, una immagine che nessuno può scordare, che ci fa ripensare per sempre a dove eravamo, come eravamo, cosa pensammo pensando a lui. Una nuvola nera all’alba di quell’estate, alla quale ne seguirono altre, una sequenza che rischiò di fermare macchine, piloti, ogni libidine velocistica.
L’epilogo è il tocco che trasforma una storia serrata in una avventura più intensa, indimenticabile. In questo caso, le ultime righe sparano sul grande schermo della memoria il tragico dello sport, dunque dell’esistenza. La morte come un capriccio
del destino e, nel contempo, come ingrediente prescelto elimina dolorosamente ogni fotogramma superfluo, consegna una compiutezza da conservare. Dentro la quale stanno per sempre i capitoli di una vita comune per niente. Abbastanza per trattenerla, riguardarla, farla propria.
Senna da Silva. Ayrton. Il cognome della madre con una radice italiana, il Brasile come contesto noto a noi per luoghi comuni, noto a lui, sin da ragazzino, come un serbatoio non del tutto comprensibile, non proprio accettabile.
La biografia di Senna è una strada percorsa all’infinito. Scandita da tappe nitide. San Paolo, una metropoli caotica e crudele, vista da un punto alto, privilegiato. Data di nascita: 21 marzo 1960. Era già in salvo il padre, Milton: si era dato da fare, aveva intuito, interpretato, capitalizzato. Aveva offerto ai propri figli, tre, Viviane, Ayrton, Leonardo, un agio rassicurante compreso in un panorama desolante. La prima tappa sta qui: nella visione dell’altro da un promontorio solo all’apparenza protetto. Questo accadde nell’infanzia di Ayrton e fu un’orecchia del quaderno piegata presto, di quelle che così rimangono, hai voglia a metterci sopra dei pesi. Miseria, povertà a un chilometro, due metri, niente. Così, mentre quel ragazzino moro e riservato rivelava a se stesso e a papà la straordinaria forza della propria natura guidando come nessuno
un kart giocattolo, accadde dell’altro: Ayrton decollava sul suo tappeto volante in una grazia simile a un sottile senso di colpa. Questo al capitolo uno, questo sino all’ultimo. C’è una parola che Senna pronunciava spesso. La parola è
«opportunità». Abbinata a un’altra: «emozione». Al pari di un connettore, accostava la consapevolezza di aver ricevuto un patrimonio prezioso e, nel contempo, la sensazione che quel patrimonio comportasse un prezzo, la necessità di una corrispondenza. Ogni fortuna propria, al cospetto delle sfortune altrui, si trasformava in un additivo all’impegno, al rigore, alla dedizione. Non avrebbe potuto fare altro. Guidava, per correre era fatto, era nato. E in questo modo avrebbe potuto restituire. Alta qualità, gioia, passione. La sua emozione, appunto, permanente, una
benzina potentissima, come compendio, come tributo destinato all’altro. Non a caso, poco prima di morire, avrebbe messo in piedi una fondazione, lo strumento a quel punto più concreto per offrire opportunità simili a chi non ne aveva affatto. «Quanti ragazzini lì dentro potrebbero diventare buoni medici, architetti, falegnami?». Indicava una favela, indicava piedi consumati sopra ciabatte logore. Indicava il prossimo suo, preso com’era da una religiosità semplice, da un autentico senso di appartenenza. «I ricchi non possono vivere su un’isola circondata da un oceano di povertà. Noi respiriamo tutti la stessa aria. Bisogna dare a tutti una possibilità».
Sta qui, soprattutto, la cifra di un legame che resiste nel tempo. Un uomo disposto a svelarsi, a mostrare i grumi della propria anima, contraddizioni comprese. Milton Senna, pentito di aver offerto al figlio un dono motorizzato e dunque pericoloso, cercò più volte di tirare i freni. Ma era tardi, Ayrton era già partito e la sua velocità appariva davvero inarrestabile. Le cifre della carriera mostrano eccellenze assolute sin dai primi chilometri. Sarà così sino alla fine. Tre titoli mondiali, 41 vittorie, 65 pole position, una classe, un tocco da fuoriclasse, una ferocia agonistica irresistibile. Il tutto alimentato da una concentrazione maniacale, dall’ossessione di fare bene, meglio, ancora di più. Ogni premio trattato come conseguenza dell’impegno. Ogni vacanza conquistata con fatica. Erano sbalorditi i tecnici, i meccanici che lavoravano attorno a lui. Dalla sua straordinaria sensibilità – ciò che gli permetteva di avvertire variazioni motoristiche date per indecifrabili, di governare la macchina sul bagnato con una padronanza sconcertante –, dalla sua attitudine alla fatica, alla ricerca di un miglioramento. Lavoro, lavoro, lavoro. Mentre i colleghi broccolavano le ragazze negli hotel, lui stava in pista, stava là. Preso dalla
propria missione e per questo deriso, guardato con dichiarato sospetto dagli attori protagonisti di un mondo al maschile virato al maschilismo.
Grandi corse, grandi rivalità, grandi imprese. Certo, ma non solo. Mentre correva, mentre vinceva, mentre perdeva, Senna
aveva a che fare con Dio. Erano emozioni parallele a quelle offerte dall’agonismo ed era qualcosa da comunicare senza prudenza dopo un traguardo. Aveva visto Dio, ecco, in fondo al rettilineo di Suzuka, Giappone, nel giorno del suo primo titolo mondiale, 1988; con Dio aveva girato a Montecarlo, in uno stato di trance che gli aveva permesso di abbassare il record sul giro ripetutamente e in modo impressionante. Un pazzo? Ma no, perché i toni, i modi contenevano una sincerità tanto sconcertante quanto rispettabile e, alla fine, comprensibile. Leggeva la Bibbia, apparteneva alla Chiesa Evangelica come la sorella Viviane, con il suo Dio intratteneva rapporti costanti. E privilegiati. Al punto da convincerlo, tirandolo per la tunica. Quando, nel 1990, provocò deliberatamente quell’incidente con Alain Prost, il suo rivale, il suo doppio da pista, di nuovo Suzuka, compensava una ingiustizia subita l’anno precedente. Con il consenso e il permesso di Dio, sia chiaro.
Era difficile stargli dietro in pista, era paradossale stargli dietro in un contesto del genere. Eppure, persino un atto così scellerato, così inaccettabile, trasformato in una confessione divenne meno cruento, più legittimo. Un elemento coerente, per certi versi, con un tutto, con quel suo modo anomalo. Ayrton era talmente severo con se stesso, da ottenere, alla fine e dal suo punto di vista, un
permesso celeste. Intanto mostrava a chi stava in tribuna o davanti alla tele qualcosa di più rilevante, quasi un miracolo. Ma certo, perché Senna, da campione inarrivabile, lontano da ciò che ciascuno di noi può compiere usando le proprie mani, i propri gesti, la propria natura e la propria paura, improvvisamente si avvicinava, ci somigliava. Imperfezioni in luogo di perfezioni. Inciampi abbinati a un incedere magnifico. Ombre sui lampi della classe, del talento. «Non capisco come mai molti uomini trattengano le lacrime. Sono preziose, sono la benzina dell’anima». Parole come grani sfuggiti da uno spiffero della riservatezza. Frammenti liberati e rimasti in circolazione, da allora, per sempre.
Dunque, una persona, un compagno di viaggio capace tra l’altro di cacciare in pista meraviglie, di litigare per la sicurezza, di ostentare rabbia, acuti e sofferenze in continua sequenza. Disposto a curare il proprio fisico e il proprio spirito, capace di riflettere sul senso del fare, pronto a perdonarsi e a perdonare.
Gli ultimi giorni, il capitolo finale, sembrano ancora oggi parti di una sceneggiatura drammatica e allo stesso tempo perfetta. Nella quale c’è un incidente tremendo subito da Rubens Barrichello, trattato da Senna come un delfino da accudire; c’è la morte di Roland Ratzenberger, pilota austriaco dal curriculum breve, violentato contro quei muretti di Imola che avrebbero causato la morte di Ayrton il giorno successivo. Si muore in pista, da
sempre. Ma erano passati otto anni dall’ultimo incidente fatale, avvenuto durante un test privato a Le Castellet, Francia. Elio De Angelis, Brabham, 14 maggio 1986. Macchine pericolose, una pista colma di insidie, una preoccupazione fonda anche per chi spazza via la paura come un grano di polvere, altrimenti ciao.
Che fa Ayrton nelle sue ultime ore? Trova il modo di comunicare via radio con Prost, ritiratosi dall’attività agonistica e commentatore per la tv francese. La frase, pronunciata in diretta dall’abitacolo della sua Williams durante un giro di pista: «Alain, mi manchi». Prost spiazzato, al pari di ogni telespettatore, da una carezza offerta dopo anni di colluttazioni. Non solo: poco dopo la morte di Ratzenberger si apparta con Sid Watkins, medico della Formula 1 e suo vecchio amico, che gli dice: «Andiamo via, Ayrton, andiamocene a pescare». Parole che, ascoltate ora, immettono nell’intero panorama una premonizione da brivido, una malinconia sconcertante. Senna ha un nuovo avversario, Michael Schumacher, temibile e portatore di una determinazione fiutata immediatamente secondo quell’animalità che segnala i campioni. Ha un forte, doloroso dissidio famigliare da trattare con i genitori che si oppongono oltre il lecito alla sua relazione con Adriane, considerata da allora a oggi come una avventuriera senza scrupoli.
Senna, al tramonto del suo viaggio, è solo, ferito, preso da preoccupazioni complesse. Ogni telecamera lo marca, lo inquadra, lo mostra mentre il destino è un conto alla rovescia. Sarà così sino all’ultimo istante, l’ultimo spasmo. Minuti lenti e muti durante i quali una quantità enorme di persone ha il tempo per misurare ciò che sta perdendo, ciò che va conservato. I gesti, i tratti, le parole, le emozioni di un uomo che, con la sua solitudine, riusciva a farci compagnia.
Imola mostra una sequenza indelebile, diventa un controtempo violentissimo. La Formula 1 si trasferisce ferita a Montecarlo dove un altro austriaco, Karl Wendlinger, sbatte la sua Sauber contro un albero fuori dal tunnel. Resterà in coma per un mese all’ospedale Saint-Roch di Nizza. Un’altra corsa, Barcellona, Gran Premio di Spagna. Andrea Montermini, giovane pilota italiano che ha preso il posto di Ratzenberger, colpisce con violenza un muro all’inizio della retta. Altri rottami. Un altro silenzio improvviso. È un troppo. È un tempo sospeso e gonfio di terrore che dura qualche ora. Montermini se la cava con poco, miracolosamente. Resta solo da cambiare in fretta quelle macchine inadeguate dentro una estate lugubre e dolente. Nulla sarà più come prima. Tempo di lettura: 11 minuti