La catastrofe che ci ha cambiato
Una rinnovata coscienza ambientalista (e il grande successo di una serie tv) ha riportato l’attenzione su una catastrofe nucleare senza precedenti. Era il 1986, l’anno più destabilizzante per il pianeta, prima del 2001. E anche l’Italia, quasi stupefatta,
Io, Chernobyl, ce l’ho davanti quasi tutti i giorni, nell’affilato pallore da sorcio del mio amico Mariano, un ossessivo grave, che dal 30 aprile 1986 non ha più toccato latte, uova e carne, lui che se li trovava a colazione, pranzo e cena, ogni santo giorno, figlio unico, viziato e alimentato dall’amore di mamma. Era sul terrazzo di casa quel giorno, vista sul Tevere, a montare un’antenna, quando immaginò di veder passare sulla sua testa la nuvola radioattiva. A settant’anni suonati, ha passato e sprecato metà della sua vita senza più dare un morso a un hamburger o a un hot dog, respingendo le polpette al sugo della madre affranta come fossero scarafaggi dalla puntura letale. Un mese prima aveva detto addio al vino, causa lo scandalo del metanolo. Tre mesi dopo la mucca pazza lo ha steso definitivamente. Un caso nemmeno così raro, a margine di un’apocalisse reale che diventò rapida un’apocalisse mediatica. Una psicosi collettiva che, specialmente a casa nostra, fece del nucleare una delle tante emanazioni di Satana. Dalle abitudini stravolte dell’amico topastro alle insalate contaminate negli orti dei nostri nonni, sparsi tra Lazio, Veneto, Piemonte e Lombardia, i cinghiali e le mucche radioattivi, fino al referendum dell’anno dopo che, a larghissima maggioranza, abrogò alcune norme del nucleare, avviandone di fatto la cancellazione in Italia.
Detto che quel 1986 fu un anno davvero molto tossico per il pianeta (il 21 agosto dello stesso anno, una nube tossica di anidride carbonica sprigionata dal lago vulcanico Nyos in Camerun uccise nel sonno 1.700 persone e ne intossicò almeno 30 mila), la nube di Chernobyl resta una storia di straordinaria follia. «Non c’è mai stato nulla di sano a Chernobyl, né prima né dopo», dice Legasov, uno dei protagonisti nella serie tv. Un disastro che ha infettato
le menti oltre che i corpi. Il maiale nato con malformazioni congenite da radiazioni, esposto nel museo nazionale di Kiev, racconta più di ogni altra cosa lo spavento e il delirio.
L’uomo apprendeva che il suicidio di massa poteva prescindere da una banale dichiarazione di guerra. Non si trattava di un evento naturale e nemmeno sovrannaturale. La catastrofe dell’errore umano svelava la nostra nudità, il nostro essere inermi a fronte di un Frankenstein che non sta più nella pellicola, lo scienziato che perde il controllo di ciò che ha creato. Il futuro come radicale minaccia. E nulla più che ti protegge dall’irreparabile, in questo caso un mostro al plutonio, né un Dio in cielo, né la comunità in terra di cui sei parte, trascinata nel tuo stesso terrore. Più inerme di te.
Era il 26 aprile 1986. A Pripjat la terra trema, gli insonni vedono dalle finestre un incendio gigantesco. All’1 e 23 e 40 secondi, il reattore 4 della centrale esplode due volte durante un test di
sicurezza condotto in totale violazione delle norme di sicurezza, liberando nell’atmosfera dal tetto scoperchiato, un disco di mille tonnellate, immani quantità di vapore radioattivo. Cento volte superiore a quello di Hiroshima e Nagasaki messe insieme. Dodici ore dopo il vento spinge la gigantesca nuvola letale sui cieli della Svezia. Lo stato d’emergenza in Unione Sovietica arriva solo trentasei ore dopo. «Attenzione, attenzione: fidati compagni, il consiglio comunale dei Deputati informa che in seguito a un incidente alla centrale termonucleare di Chernobyl nella città di Pripjat la quantità di radiazioni nell’aria è aumentata sopra la norma…», inizia così il testo che allerta i cittadini a rischio e li dispone all’imminente evacuazione.
Più di mille pullman prelevano centinaia di migliaia di persone.
Non c’è mai stato nulla di sano a Chernobyl, né prima né dopo
Una deportazione di massa. Dovevano essere pochi giorni. Non sono tornati mai più nelle loro case, a parte poche centinaia di ostinati vecchietti che se ne fottono di morire perché con la morte hanno nel frattempo intrecciato una morbosa intimità. Ancora oggi Pripjat resta una città fantasma infestata nei boschi dai lupi mutanti, veri e mitologici allo stesso tempo, e nei paraggi della centrale dai turisti del macabro, influencer e selfisti a caccia di feticci. Non si sa chi più mostruoso, se loro o i lupi geneticamente modificati. Foto di gruppo davanti al «sarcofago» di mattoni costruito in sette mesi per rivestire l’orrore. Il reattore assassino da cui prese forma il Golem di vapore tossico e con lui l’incubo contemporaneo. Seicentomila eroici «liquidatori», così li chiamarono, tra vigili del fuoco, medici, militari, volontari, si gettarono a mani nude nella fornace a spegnere e a rimuovere, trapassati la maggior parte negli anni per tumori alla tiroide e leucemie, o malamente sopravvissuti tra conati di vomito e desquamazione della pelle. Memorabile quel 1986. L’anno più destabilizzante per il
pianeta, prima del 2001. Morivano come le mosche di Aids. Un anno prima era toccato a Rock Hudson, l’attore. Non sapeva ancora di essere malato Freddie Mercury il giorno in cui i Queen diedero il loro concerto a Wembley. Tre mesi prima di Chernobyl, l’altra esplosione choc. Lo Space Shuttle Challenger nella fase di decollo, tutti e sette gli astronauti al creatore. Come dire, morale della lugubre favola, puniti prima per la hybris di pervadere lo spazio, castigati poi per quella di contaminare la terra.
L’orrore da noi era fin lì più confinato nei best seller di Stephen King e cinema derivato, l’incubo nei fumetti di Dylan Dog farneticati dal grande Tiziano Sclavi. Primo numero settembre 1986, L’alba dei morti viventi, zombi che si mescolano ai vivi, esattamente come i liquidatori di Chernobyl. Due nomi imperiosi narcotizzano l’intero pianeta, Maradona con la sua malandra mano de Dios, e Mike Tyson, ventenne, con la sua faccia d’assassino. E, quando la nube malefica ci angoscia, Rita Levi-Montalcini, premio Nobel, è lei il nostro volto rassicurante della scienza. Al cinema, record d’incasso, Top Gun alias Tom Cruise è l’eroe ancora possibile per quanto inventato che ci protegge da tutto, non dalle radiazioni nucleari.
Uomini e donne che la sanno lunga. Jean Genet, poeta vagabondo, ha la scaltrezza di morire 10 giorni prima di Chernobyl nella camera del suo sordido hotel parigino, tra barbiturici e fogli ingialliti, alle prese con il suo privato orrore. Ancora più scaltro Otto Preminger, regista, ucraino anch’egli, per ironia della sorte. Divorato dall’Alzheimer se ne va tre giorni prima, non riconoscendosi più allo specchio. Esemplare Bessie Love, nome d’arte di Juanita Horton. In totale sintonia con la sua storia, muore il giorno stesso di Chernobyl, due ore prima dell’esplosione. Attrice del muto in
un universo che si scopre muto, per quanto non riesce a decifrare, elaborare e raccontare. Era Paula White nel Mondo perduto, fantasy da un romanzo di Conan Doyle. Il ruolo più importante della sua carriera. Lei, eroina, in un mondo invaso da uomini-scimmia, animali preistorici e bestie mutanti. Le stesse che ora popolano i boschi di Pripjat. La sua ultima apparizione, tre anni prima, nell’horror Miriam si sveglia a mezzanotte, David Bowie violinista vampiro che invecchia di colpo in un mondo che non ha futuro. Nel giro di due settimane, spinta da Belzebù in persona, la nuvola micidiale tocca quasi tutta l’Europa e, tra il 30 aprile e il 5 maggio, arriva anche sull’Italia del Centro e del Nord. Nelle zone montane la pioggia complica tutto, irradia il veleno tra cielo e terra. Picchi di contaminazione si registrano il primo maggio, le piazze traboccanti dei lavoratori in festa. A migliaia, in pochissimo tempo, hanno inalato miasmi radioattivi inodori, plutonio, iodio,
il micidiale cesio 137. Nessuno potrà mai stabilire con certezza quanti italiani contaminati e che relazione tra quella nuvola e le cresciute patologie tiroidee e autoimmuni. L’unico veleno di cui fin lì sapevano gli italiani era quello che aveva ucciso un mese prima Michele Sindona nel suo carcere di Voghera, il cianuro nel caffè. In quelle ore abbiamo cominciato a interrogare morbosamente le nuvole cercando la peste che forse ci avrebbe ucciso.
Dieci giorni prima due missili lanciati dai libici in direzione di Lampedusa non ci avevano impressionato granché. Sei giorni
prima la Juventus del Trap aveva messo le mani sul ventiduesimo scudetto, battendo il Milan del nuovo presidente Silvio Berlusconi. Decisamente più vaga l’attenzione sul maxiprocesso di mafia iniziato nell’aula bunker dell’Ucciardone. A fine aprile di quel 1986 gli italiani erano ancora una comunità molto naïf, custoditi tra cielo e terra dal carabiniere tricolore e dalla Madonna tricolore anche lei. Già con la testa a fantasticare imminenti sabbie calpestabili e mari tiepidi, ansiosi solo di ammassare le carni sudate sotto gli ombrelloni. Non ancora deformati da internet e dagli smartphone. La carta dei giornali non ti dava l’orticaria e i primi cellulari pesavano come mattoni. Gli smanettoni della Silicon Valley non avevano ancora conquistato il pianeta, figuriamoci l’Italia. Quando a fare lo sciopero della fame era solo uno, sempre lo stesso, tutto meno che smaniosi di strapagare le nuove Auschwitz per obesi reali o immaginari intenti ad ammazzarsi di tisane. Incapaci di odiare e reticenti a digiunare. Il colesterolo, questo sconosciuto. Quando il vegano era ancora un marziano. Vegano, che? Ciambelle a tutto spiano. Incastrati nel buco gonfiabile che a malapena li contiene. Una preistoria che è ieri, 33 anni fa, facile da rievocare, annusando memorie e cantando le canzoni di Cutugno. Nuvole nere? Pochi e tollerati gli immigrati che, da lì a poco, sarebbero diventati l’ossessione di Borghezio e di quelli con i fazzoletti verdi al collo.
Con duecento lire compravi un ghiacciolo e con cinquantamila lire ci facevi un fine settimana, pensione completa, a Bellaria. Si schiccheravano ancora le biglie con la faccia da ciclista sotto la canicola, nelle piste di sabbia fatte a mano, meglio con il gomito, trascinando l’amico più in carne a sagomare le curve. Il cubo di Rubik, l’imperdibile oggetto di perdizione. Passati nel frattempo dalle braghe scaciate ai jeans firmati, ma sempre in coda e in fila per qualunque cosa. Per il bollo dell’Aci, la salsiccia della sagra e i primi viados o le nuove puttane scaricate a frotte sui viali delle città e sulle litoranee, per lo più africane e rumene, braccate dalla polverosa tonaca di Don Benzi, il Prete Insonne e Redentore che spostava montagne e papponi. Quando la rete non era ancora il libero accesso a tutto, quindi a nulla. Quando partire era un po’ come morire. Le terga da Cesenatico già pronte a schizzare via charter alle Maldive. E l’attrazione non era virale, non era la Chiara Ferragni di turno ma il Gabibbo di sempre o Mino Damato che, in giacca e cravatta a Domenica In, camminava sui carboni ardenti. Mentre il nuovo avanzava trionfante con la faccia di Renzo Arbore e la sua banda di stralunati.
Era l’Italia ancora pinne, fucili e occhiali, del bisturi per rifarsi una vita non una faccia, delle ultime accettabili cambiali per pagare loffie Ferrari di seconda mano, delle assordanti balere e delle silenziose derive, quando i buchi delle serrature da spiare non erano ancora di massa e a scambiarti la donna nei privé ti sentivi un cavolo di satanista. Gente comune. Del pudore e del sudore. Riemersa meno innocente ma non meno gaudente dagli anni di piombo e dall’ultima Renault 4 rossa del nostro immaginario, l’insostenibile cadavere in posa fetale di Aldo Moro. Per nulla preparati a presentire la fine del mondo. Meno che mai capaci di trovare Chernobyl sulla mappa. Il nome che da lì a poco sarebbe entrato nel nostro lessico familiare. Metafora del disastro che ti cambia per sempre i connotati. L’apocalisse che, da lì a poco, ci avrebbe lasciati a bocca aperta e naso all’insù. Stupefatti, più che altro.