Siamo tutti spioni
La tata del figlio, la badante della madre, persino dog e cat sitter. Sempre più persone oggi vengono controllate con strumenti degni di 007. La causa? Una società che non accetta l’incertezza. Risultato? Una vita di paura
Al 15 di via Anfossi, stradina milanese né troppo centrale e perbene né troppo periferica e sinistra, tra una boutique di tartufi e una stamperia, trova spazio una sorta di bottega della spia. In vetrina torreggia losco un passamontagna da rapinatore, calcato su un mezzo busto di polistirolo. Alle quattro del pomeriggio, il negozio è aperto. Ma la porta è serrata. Anche dopo ripetute sollecitazioni al campanello. Dentro, il commesso parla sommessamente a una cliente. Le mostra minuscoli oggetti all’interno di una valigetta con imbottitura in gommapiuma: cimici, auricolari,
ricetrasmettitori. Lei annuisce con una gobba di timidezza, o di spavento. Una stretta di mano e la signora bionda e sbiadita esce con lo sguardo sul marciapiede. Il commesso si avvicina: «Ora può entrare».
Subito dopo, quello che scopriamo essere Andrea Pastori, titolare del negozio Tecnospy ed esperto di sicurezza, prosegue: «Ricevo una persona alla volta. Qui la privacy è importante». Attorno a noi, strumenti di ogni ordine e grado per annullarla, la privacy: set di microspie, visori notturni e, soprattutto, telecamere. Grandi, piccole, quasi invisibili, nascondibili in una penna, nelle asticelle degli occhiali, nel cravattino: le telecamere sono l’oggetto del desiderio del momento. Per tanti privati che cospargono case, uffici, auto e garage. Per le città, ormai tappezzate: solo a Milano se ne contano 8 mila, 2 mila di proprietà del Comune e 6 mila di pertinenza dell’Atm. Sono circa una ogni 160 abitanti, senza tener
conto dei sistemi di videosorveglianza di cui si dotano aziende, banche, negozi. La presenza è così fitta che è in corso un progetto per istituire un’anagrafe delle telecamere pubbliche e private. Lo scopo: una banca dati per prevenire e indagare, soprattutto in caso di «vittime vulnerabili».
Una simile preoccupazione deve aver smosso gli animi delle commissioni Lavori pubblici e Ambiente del Senato: per assicurare «la più ampia tutela» delle fasce fragili della popolazione, è stato approvato un emendamento bipartisan al decreto «sblocca cantieri», che prevede l’obbligo di installare telecamere negli asili
e nelle case di cura per anziani o disabili, le cui registrazioni potranno essere visionate solo dalla polizia giudiziaria su indicazione di un pubblico ministero. Il costo della manovra: 160 milioni di euro in sei anni.
Diffidente l’Associazione dei presidi: «Questo sistema contrasta con il principio della riservatezza dei dati personali e rischia di alimentare la sfiducia nei confronti della scuola». Entusiasta il ministro dell’Interno Matteo Salvini che, via Twitter, esclama: «Telecamere per difendere bimbi, anziani e disabili, altra promessa mantenuta». Soddisfatti anche i sempre più numerosi italiani che, per sospetto, paura o, semplicemente, per stare «tranquilli», geolocalizzano i figli adolescenti con l’app Trova Amici dell’iPhone, creano profili falsi su Instagram per spiare le Stories di presunti rivali senza lasciar traccia, corrono in negozi analoghi a Tecnospy (sono circa dieci in tutta Italia) per monitorare case e colf, genitori anziani e badanti, cani e dog sitter.
«La nostra clientela è variegata», racconta Pastori. «Riceviamo vittime di stalking, mobbing, estorsione. E anche separati in causa, specialmente se ci sono di mezzo minori: non è raro che un genitore senta il bisogno di verificare se l’ex coniuge rispetta i patti stabiliti in sede legale». Non mancano gli «spioni per precauzione», che sorvegliano perché «l’occasione fa l’uomo ladro». Ma anche guardia.
«La cronaca gioca un ruolo fondamentale», continua Pastori. «Se oggi i telegiornali parlano di un “asilo degli orrori”, domani vedremo orde di genitori munirsi di telecamere perché “anche la tata, non si sa mai”». In America il meccanismo è così consolidato che è stato coniato un termine ad hoc: nanny cam, letteralmente tata-camera. In Italia, manca poco. «I progressi della tecnologia e la contrazione dei costi delle apparecchiature tecnologiche incentivano la domanda. In negozio una microcamera parte da 100
euro, su Amazon si trovano prodotti non professionali anche a metà prezzo».
Proprio su Amazon, per 33 euro, Erminia Lombardi, 45 anni, avvocato del Napoletano, ha acquistato una videocamera per sorvegliare la madre anziana. Racconta: «Prima se per due volte non rispondeva al telefono, mi precipitavo a casa sua. Ora, apro l’app collegata sullo smartphone: se sta dormendo vedo persino il suo respiro. Colf e badante sanno che posso controllare: funziona anche come deterrente».
Ragioni analoghe hanno spinto Margherita Romaniello, 50 anni, manager culturale di Matera, a supervisionare l’attività dei suoi gatti: «Sono spesso fuori casa: la telecamera placa il mio senso di colpa. Non controllo la cat sitter: lei stessa mi manda un video su WhatsApp appena entra in casa».
Pure Luca e Claudia (che preferiscono mantenere il riserbo sul cognome), 37 e 39 anni, bolognesi, sono ricorsi alla videosorveglianza. Avevano appena assunto una nuova tata per il figlio di due anni. «Eravamo insicuri», racconta Luca. «Abbiamo nascosto due videocamere – in sala e in camera del bambino – che io controllavo regolarmente dall’ufficio. Quasi subito ho notato che la tata era coercitiva, anaffettiva. Lo forzava a mangiare anche quando non aveva fame, lo lasciava strillare a letto se non si addormentava subito. Non l’ha mai picchiato, ma usava parole scurrili e toni violenti: “Basta piangere, rompicoglioni!”, “Mangia, sennò quei testa di cazzo dei tuoi genitori chi li sente”. Non ci ho visto più: sono tornato a casa, volevo denunciarla. Mia moglie mi ha fermato: la babysitter non sapeva di essere filmata, rischiavamo una controdenuncia. Il giorno dopo l’abbiamo liquidata con una scusa. Fine dei giochi. E degli incubi».
«La legge è scivolosa quando si parla di telecamere nascoste per controllare un lavoratore», spiega l’avvocato penalista Eleonora Piccolotto. «Il dipendente ha diritto alla privacy, il proprietario di proteggersi da eventuali crimini. Con il Jobs Act l’uso di sistemi di videoripresa è consentito a patto che lo scopo sia prevenire reati e non verificare la qualità della prestazione. E che il lavoratore, informato della presenza di telecamere, abbia acconsentito e presentato un’autorizzazione del sindacato». Ma cosa succede se una telecamera, presumibilmente installata per tutelarsi dai ladri, fornisce la testimonianza che la babysitter maltratta il minore? «Le prove registrate, anche senza consenso, possono essere utilizzate in sede di processo. Purché si ribadisca che l’obiettivo originario era, appunto, ripararsi da pericoli esterni».
«Il problema è che non ci si può proteggere da tutto», sottolinea la psicoterapeuta Giulia Virginia Mazzarini. «Viviamo in una società intollerante all’incertezza, all’imprevedibilità. L’eventualità che il partner ci abbandoni, che il genitore anziano si senta male, che il figlio finisca nei guai è vissuta come potenziale catastrofe. Il solo pensiero ci terrorizza e, ingenuamente, pensiamo di allontanarlo esercitando un controllo assoluto su ogni aspetto della nostra vita. Con videocamere, spiando il cellulare del coniuge, sorvegliando ossessivamente i bambini: attività, queste, che però generano uno stato d’ansia costante. Morale: per evitare un picco di paura, viviamo nel sospetto. E nella paura cronica».
Se oggi i tg parlano di un «asilo degli orrori», domani vedremo orde di genitori munirsi di telecamere perché «chissà, anche la babysitter»