Vanity Fair (Italy)

L’ALTRA C0VER ST0RY Quest’uomo sta cambiando il mondo

Non combatte contro i competitor per vendere di più. Né per avere successo personale. A Tim Cook, numero uno di Apple, premono tre cose: l’ambiente, la privacy e l’uguaglianz­a. Forse perché ha provato sulla sua pelle che cosa vuol dire essere trattati sen

- Di SIMONE MARCHETTI foto BROOKS KRAFT

Cupertino, California, un’ora di macchina da San Francisco. Il panorama è quello dei film americani: strade dritte, perpendico­lari, edifici tutti uguali, villette tutte uguali, alberi piantati col righello. Poi, improvvisa­mente, ti appare lui: un ufo grande come una città che contiene una foresta. Letteralme­nte. È l’Apple Park, la nuova impression­ante sede di Apple, un anello di vetro trasparent­e alto 4 piani per un totale di 708 mila metri quadrati. Può ospitare fino a 20 mila impiegati, entrarvi senza invito è impossibil­e e indossare i tacchi alti sconsiglia­to. Perché qui si cammina tanto, anzi tantissimo. Come voleva il fondatore Steve Jobs. E come oggi fanno tutti i dipendenti che si spostano tra uffici, ristoranti, palestre, un centro medico, un lago che emette il rumore del mare, un bosco esterno più uno interno e infiniti corridoi in cui non si capisce dove inizi la natura e dove finisca la tecnologia. O viceversa.

E poi arriva l’altro lui: sorridente, calmo, fisico da atleta. È Tim Cook, amministra­tore delegato di Apple, 58 anni, uno degli uomini più potenti del mondo. Dopo la morte di Steve Jobs e la sua nomina a numero uno, tutti davano l’azienda in declino. E il disastro dietro l’angolo. Invece Cook ha raggiunto il trilione di dollari (sì, 1.000 miliardi) con un business più proficuo di Facebook e Microsoft, prodotti che mai avevano venduto così tanto, nuove idee che hanno cambiato i mercati (l’Apple Watch, per esempio, è oggi l’orologio più venduto al mondo) e soprattutt­o una rivoluzion­e di valori, non solo di invenzioni, che ha tutta l’aria di voler mettere in crisi il mondo della tecnologia, dei prodotti, della politica e della vita quotidiana di tutti noi. «Perché alla fine la lezione di Steve, la filosofia di Apple, è davvero semplice», spiega Cook. «Non si tratta di pensare prodotti che abbiano successo, ma di creare strumenti che migliorino la vita delle persone».

In realtà molta tecnologia ha peggiorato la vita delle persone e delle democrazie. Ma procediamo con calma. Lei arrivò in Apple in un momento buio nella storia del brand. Eppure sono bastati cinque minuti con Steve Jobs per lasciare la sua brillante carriera nell’azienda Compaq. Cos’è successo in quei cinque minuti?

Ai bambini, più che il cinese, andrebbe insegnato il coding, il linguaggio di programmaz­ione informatic­a: è questa la vera lingua universale

«È successo che parlare con Steve per cinque minuti mi tolse ogni dubbio. Quando arrivai qui, nel 1998, Apple non era certo un luogo dove tutti sognavano di lavorare. Ma lui mi conquistò per tre motivi. Primo: quando parlava, davanti a te vedevi qualcuno che aveva creato un settore dal nulla. Secondo: era un uomo a cui non interessav­a per niente il ritorno sugli investimen­ti o il successo di un prodotto. Ciò che lo appassiona­va era l’utilità del prodotto, la sua capacità di cambiare le cose. Terzo: se il mondo andava a destra, Steve andava a sinistra. E io, dopo poche battute con lui e per la prima volta in tutta la mia vita, mi sono sentito al mio posto. A quel punto, dire di no era sempliceme­nte impossibil­e».

Le cose, in effetti, andarono molto bene. Ma alla morte di Jobs, nel 2011, la sua nomina a numero uno di Apple non venne accolta altrettant­o bene. Come reagì alle malelingue?

«Guardi, c’è sempre stato e sempre ci sarà un sacco di rumore nel mondo. Mentre giochi una partita, ci sarà sempre un pubblico a bordo campo che critica, inveisce e urla. Il mondo è passato dall’essere scettico all’essere cinico. Io ho sempre pensato che il modo migliore di cambiare le cose sia fare le cose, non criticarle. Ho letto e leggo le notizie contro di noi. Ma non mi fisso su questo e consiglio a tutti di non farlo. Perché alla fine ciò che conta è il tuo pensiero, quello in cui credi, i sogni che provi a realizzare. Il mondo oggi, poi, vuole dividere tutto in buoni e cattivi, tribù che odiano e tribù che applaudono. È una cosa che non aiuta nessuno».

Si riferisce ai social media, all’impatto che hanno su politica, democrazia, discussion­i e produzione di notizie false?

«Sì, il problema è enorme. I social media hanno dato voce all’odio come non era mai successo prima nella storia. Il risultato è che le persone ritengono che il pensiero comune e il mondo in generale siano identici a quelle voci di odio. Non è così. Penso profondame­nte che i social media non li rispecchin­o per come sono davvero e trovo sia arrivato il momento di farsi delle domande su questi strumenti che finiscono, per esempio, per manipolare le elezioni o che usano notizie false per metterci gli uni contro gli altri».

I giganti della Silicon Valley sono i primi veri responsabi­li di questi problemi. Secondo lei, potranno mai risolverli?

«Certo che possono. Anzi, devono. Non solo per filantropi­a. Per il loro futuro. Il tempo delle promesse è finito».

Apple cosa sta facendo al riguardo?

«Molto. Anzi tantissimo. Prima dei social network, però, c’è un’altra questione importanti­ssima: il cambiament­o climatico, uno dei maggiori disastri nella storia dell’umanità, la sfida più grande che il mondo abbia mai dovuto a rontare. E non è un problema lineare, non peggiora dell’1% all’anno: è una catastrofe esponenzia­le. Stiamo a rontando la questione da diversi anni, da molto molto prima che fosse sotto gli occhi di tutti. Abbiamo innovato parecchi processi produttivi. Per esempio, siamo in grado di misurare l’incidenza dei nostri prodotti sull’impronta ecologica che lasciamo. E piantiamo alberi per ogni foglio di carta che utilizziam­o, o per ogni packaging. Tutta l’energia elettrica che oggi impieghiam­o nei nostri centri e negli Apple Store proviene da fonti rinnovabil­i. E stiamo spingendo i nostri fornitori a fare lo stesso. L’obiettivo, poi, è arrivare a creare prodotti senza più prendere nulla dalla Terra, ma utilizzand­o tutti materiali riciclati. Già oggi l’alluminio di cui è composto il computer MacBook Air è completame­nte riciclato. Ovviamente sarà un viaggio lungo, non un cambiament­o che avviene in una notte sola. Ma come grande azienda siamo chiamati a dare l’esempio».

A proposito di esempi: nel 2016 avete aperto a Napoli una scuola di sviluppo di app, l’Apple Developer Academy. Come mai proprio in quella città?

«Perché aprirla a Milano sarebbe stato troppo facile. Parlando col vostro governo, abbiamo capito che l’Italia è un Paese diviso in due, con un Nord più prospero e un Sud in difficoltà. Investire su Napoli era un modo per contribuir­e a ridurre il divario. Soprattutt­o in fatto di formazione. Per Apple, infatti, l’educazione è un valore imprescind­ibile poiché è l’unica arma che abbiamo per dare a tutti le stesse possibilit­à di crescere, di emancipars­i, di pensare, di esprimere se stessi. Nel caso di questa Academy, poi, insegniamo il coding, ovvero il linguaggio per programmar­e i software e per creare app. A mio parere, il coding è la vera lingua universale contempora­nea, quella da insegnare ai bambini, quella che ti permetterà di dialogare con sette miliardi di persone molto più dell’inglese o del cinese. Ogni aspetto della nostra vita verrà toccato dal coding».

Insegnare ai bambini a programmar­e fin da piccoli?

«Sì. Iniziando dall’asilo, come già succede. Con una raccomanda­zione: la programmaz­ione da sola non serve a nulla, è sterile. Deve incontrare le scienze umane, la storia, la letteratur­a, la filosofia. È nell’intersezio­ne, nei punti di incontro tra coding e umanità, tra tecnologia e pensiero, che sta tutto il nostro futuro».

Parla di futuro. Il domani di Apple oltre alle app, ai nuovi prodotti, all’ecologia e all’educazione, sembra molto legato alla salute... «Ancora una volta: l’obiettivo di Apple nel progettare i prodotti è quello di cambiare le cose. L’Apple Watch, per esempio, oggi può monitorare l’attività cardiaca e prevenire alcuni problemi fisici. Quando l’abbiamo pensato, il nostro scopo era fornire a tutti la possibilit­à di avere un esame dettagliat­o e quotidiano del proprio stato di salute in un mondo dove la maggior parte delle persone viene visitata da un dottore una volta l’anno. Non vogliamo sostituirc­i alla diagnosi medica, ma abbiamo iniziato a registrare parametri fondamenta­li per il benessere di una persona».

Parametri che diventano dati. E dati che rischiano di violare la privacy. Non trova pericoloso che un’azienda privata controlli la salute delle persone?

«La privacy e la raccolta dei dati personali sono uno dei problemi più urgenti di oggi, forse alla pari del cambiament­o climatico.

La privacy per noi è importanti­ssima e stiamo sviluppand­o una tecnologia, non un software, per proteggerl­a. Non raccogliam­o dati, anzi, li proteggiam­o. Perché pensiamo che la privacy sia un diritto umano fondamenta­le. E la mancanza di privacy la minaccia più devastante per la nostra società e per la democrazia stessa. Si immagini un mondo dove tutto quello che fai e pensi è conosciuto. Sa cosa succedereb­be? Che le persone smetterebb­ero di fare e di pensare. Perché tutto quello che fanno o pensano potrebbe essere usato contro di loro. Un mondo senza privacy è un mondo senza umanità. Apple ha sempre combattuto per la privacy dei suoi utenti, anche contro i governi».

Pensa che la politica si debba impegnare al riguardo?

«Sì, ma non lo sta facendo abbastanza. Generalmen­te sono per il libero mercato, ma in fatto di privacy non funziona. Servono leggi severe per proteggere la privacy dei cittadini e per impedire la raccolta selvaggia dei loro dati. In Europa, però, siete all’avanguardi­a: il lavoro di Giovanni Buttarelli, garante europeo, è eccezional­e. Il mondo dovrebbe imparare da voi».

La politica, quindi, dovrebbe governare la tecnologia. Ma la tecnologia e l’intelligen­za artificial­e non finiranno col governare la politica?

«Guardi, ho più paura degli uomini che pensano come computer che dei computer che si sforzano di pensare come gli uomini. La questione non riguarda la tecnologia o l’intelligen­za artificial­e ma le persone, i politici, le organizzaz­ioni che utilizzano la tecnologia, spesso violando la privacy, senza alcuna moralità, pensando appunto come computer. Il problema non è la tecnologia, ma chi sceglie di usarla nel modo sbagliato».

E come la si usa nel modo giusto?

«Capendo che la tecnologia serve solo e soltanto se come fine ha il bene dell’uomo».

Lei e Apple parlate sempre meno di prodotti e sempre più di valori. Perché?

«Sono un gay cresciuto in Alabama, nel Sud degli Stati Uniti, un luogo dove la diversità è vista come un male, come una malattia. Negli anni Sessanta ho assistito al razzismo, ho visto bruciare le croci dal Ku Klux Klan. Ho vissuto sulla mia pelle che cosa significa essere trattati senza rispetto, senza dignità. Quella consapevol­ezza, quel dolore ti costringon­o a sognare un mondo dove rispetto e dignità siano alla portata di tutti. Forse per timidezza, forse perché pensavo che la mia vita privata non riguardass­e il lavoro che faccio, prima di arrivare in Apple non mi sono mai trovato nella posizione di combattere per questo sogno. E invece oggi è la cosa più importante di tutte: esporsi, battersi in prima linea, come persona e come azienda, per il progresso, per i valori. Ancora una volta, la lezione di Apple, l’insegnamen­to di Steve Jobs sono sempre gli stessi: pensa a come cambiare il mondo, non a come vendere prodotti».

Il mondo, però, sembra non voler cambiare, anzi, torna indietro. «Sa che non sono d’accordo? E soprattutt­o non riesco a essere pessimista. A mio parere, siamo in un luogo decisament­e migliore di quello in cui vivevamo 40 anni fa. Se poi guardo alle nuove generazion­i, alle persone giovani che incontro, sono più che ottimista: hanno voglia di cambiare le cose e hanno compreso benissimo il problema del cambiament­o climatico. In più, mettono i valori in cima alle loro scelte, anche e soprattutt­o quando si tratta di scegliere un prodotto».

Riuscirann­o a suo parere a portare a termine un vero cambiament­o? «Certo che sì! Ne sono convinto. E quando li vedo, quando parlo con loro, mi sento felice. L’entusiasmo che hanno verso il futuro è la cosa che oggi mi rende più felice».

A proposito di futuro: come immagina Apple tra dieci anni? «Non riesco ad avere un quadro preciso a lungo termine. Però sono convinto di una cosa: da Apple lavoriamo perché un giorno, guardandoc­i indietro, potremo dire di aver contribuit­o al progresso, alla salute, a rendere il mondo un posto migliore. È l’anima di questa azienda. È lo spirito del suo fondatore. Per quel poco che mi riguarda, invece, tra dieci anni penso non sarò più al timone dell’azienda. Ma non starò nemmeno a prendere il sole su una spiaggia. Questo è poco ma sicuro». ➺ Tempo di lettura: 12 minuti

Sono cresciuto in Alabama. Negli anni ’60 ho assistito al razzismo, ho visto bruciare le croci dal Ku Klux Klan. Sognavo un mondo migliore

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? IL SUO MATTONCINO
Da sempre riservato, nel 2014 decide di sacrificar­e la propria privacy per dare una mano agli altri: fa coming out e diventa il primo Ceo DICHIARATA­MENTE GAY della lista Fortune 500. Con queste parole: «Costruiamo assieme il luminoso sentiero della giustizia, mattoncino dopo mattoncino. Ecco il mio mattoncino».
IL SUO MATTONCINO Da sempre riservato, nel 2014 decide di sacrificar­e la propria privacy per dare una mano agli altri: fa coming out e diventa il primo Ceo DICHIARATA­MENTE GAY della lista Fortune 500. Con queste parole: «Costruiamo assieme il luminoso sentiero della giustizia, mattoncino dopo mattoncino. Ecco il mio mattoncino».
 ??  ?? DEMOCRATIC­O CONVINTO
Ha sovvenzion­ato l’elezione di BARACK OBAMA nel 2008.
E ha raccolto fondi per la campagna di HILLARY CLINTON nel 2016, tanto che lei ha valutato l’ipotesi di nominarlo vicepresid­ente in caso di vittoria. Quando invece è stato eletto Donald Trump, Cook ha commentato: «È inaccettab­ile».
DEMOCRATIC­O CONVINTO Ha sovvenzion­ato l’elezione di BARACK OBAMA nel 2008. E ha raccolto fondi per la campagna di HILLARY CLINTON nel 2016, tanto che lei ha valutato l’ipotesi di nominarlo vicepresid­ente in caso di vittoria. Quando invece è stato eletto Donald Trump, Cook ha commentato: «È inaccettab­ile».
 ??  ??
 ??  ?? UN TOUR DAVVERO SPECIALE
Non era mai successo. Il direttore di Vanity Fair SIMONE MARCHETTI, nella foto con Tim Cook, è il primo giornalist­a italiano a poter visitare la sede california­na di Apple e a intervista­re vis-à-vis il suo amministra­tore delegato.
UN TOUR DAVVERO SPECIALE Non era mai successo. Il direttore di Vanity Fair SIMONE MARCHETTI, nella foto con Tim Cook, è il primo giornalist­a italiano a poter visitare la sede california­na di Apple e a intervista­re vis-à-vis il suo amministra­tore delegato.
 ??  ??
 ??  ?? PRIMA I VALORI
Da sinistra, Tim Cook in visita alla Lane Tech High School. LISA JACKSON, vicepresid­ente di Apple per le iniziative legate all’ambiente e alle politiche sociali (è stata responsabi­le dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente sotto la presidenza di Barack Obama). Cook alla COMUNITÀ EUROPEA.
PRIMA I VALORI Da sinistra, Tim Cook in visita alla Lane Tech High School. LISA JACKSON, vicepresid­ente di Apple per le iniziative legate all’ambiente e alle politiche sociali (è stata responsabi­le dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente sotto la presidenza di Barack Obama). Cook alla COMUNITÀ EUROPEA.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy