Vanity Fair (Italy)

MATTIA FELTRI

Povertà assoluta, povertà relativa

- di MATTIA FELTRI * editoriali­sta de La Stampa. *

Il 3 aprile 1964, in visita a Budapest, il successore di Iosif Stalin alla guida dell’Unione Sovietica, Nikita Khrushchev, disse agli ungheresi: «Abbiamo bisogno di un buon piatto di gulasch, di scuole, di abitazioni, di balletti. Tutte queste cose illuminano la vita di un uomo». La gloriosa rivoluzion­e proletaria era finita. O meglio, a giudizio di chi scrive era finita prima di cominciare, disastrosa­mente fallita nel momento stesso in cui si impose, per la smisuratez­za dell’ambizione: creare un uomo nuovo, emancipato dai desideri e appagato dal semplice soddisfaci­mento dei bisogni. Eccola lì l’abolizione della proprietà privata e del gusto per l’accumulo. Bisognava conoscere così poco l’uomo, e principalm­ente sé stessi, per ambire a cambiarne – a rivoluzion­arne! – la natura e per decreto, per comando, e quanto aveva ragione invece Fëdor Dostoevski­j quando nei Karamazov scrisse che il socialismo (ancora così lontano dalla vittoria) non consisteva tanto nella questione operaia, ma nella costruzion­e della Torre di Babele senza Dio, cioè non la pretesa religiosa di portare la terra in cielo, ma quella atea di portare il cielo in terra.

L’uomo nuovo, meno di mezzo secolo dopo l’avvio della rivoluzion­e, avrebbe dunque avuto la vita illuminata da un buon piatto di gulasch, intanto perché non è facilissim­o distinguer­e i bisogni dai desideri, e poi perché l’uomo che non desidera non è un uomo. Andate a vedere l’ultimo rapporto dell’Istat sulla povertà in Italia, secondo cui nel 2018 cinque milioni di persone sono in povertà assoluta, tre milioni e mezzo di italiani e un milione e mezzo di stranieri. Lo stesso numero di un anno fa. È sempre un piacere apprezzare come la stampa e la politica forniscano e usino questi numeri, dimentican­do di domandarsi come debbano essere rivisti e riconsider­ati davanti ai centotrent­a miliardi di euro nascosti al fisco, sempre nel 2018, secondo i calcoli degli uffici del Senato (un paio di mesi fa un uomo scrisse alla pagina Facebook dell’Inps per sapere se il figlio, lavoratore in nero, avesse i requisiti per chiedere il reddito di cittadinan­za…). Ma non è il punto cui miriamo.

Il punto è come si stabilisce se un individuo o una famiglia vivano in povertà assoluta. Lo si è se non si riesce a fare almeno una settimana di vacanza fuori città, se non si va al ristorante almeno una volta al mese, se non si possiede più di un paio di scarpe per stagione (estiva e invernale), se non si mangia carne almeno una volta ogni tre giorni, se non si posseggono televisore, telefonino e connession­e wi-fi, se tocca fare attenzione all’uso di luce e gas per pagarne le bollette, e così via (e sempre che non si lavori in nero e di conseguenz­a si menta sulle risposte). Be’, non siamo lontani dal buon piatto di gulasch.

Con questo non si intende irridere chi è catalogato fra i poveri assoluti, ed è compito di una società accrescere il benessere di tutti. E però la povertà assoluta non esiste, esiste la povertà relativa: si è poveri relativame­nte al mondo in cui si vive, e relativame­nte a chi ci si paragona. La stragrande parte di noi, cresciuti negli anni Settanta, aveva un solo paio di scarpe, carne una volta a settimana, guai a lasciare la luce accesa, eccetera, ma nessuno si sentiva povero. E in fondo lo aveva ben spiegato Ignazio Silone quasi sessant’anni fa: «…come se la prosperità servisse principalm­ente a soddisfare la fame in arretrato di piaceri futili e grossolani». Poi, un buon piatto di gulasch è un buon piatto di gulasch, desiderabi­lissimo, e ce ne sia per tutti. Ma i desideri andrebbero chiamati desideri, e non bisogni.

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