Vanity Fair (Italy)

L’OSPITE DELLA SETTIMANA

Roan Johnson

- di ROAN JOHNSON ROAN JOHNSON, 44 anni, regista della serie Sky I delitti del BarLume, ha appena pubblicato il libro La Naneide (Mondadori, pagg. 120, € 15).

Il nostro nano non l’abbiamo voluto subito.

Ci siamo anche cacati addosso, onestament­e. E al primo vero ritardo di Ottavia abbiamo provato a esorcizzar­e la paura chiamandol­o Vairus. Cioè Virus, ma con la pronuncia inglese.

Perché dopo mesi di tentativi, paranoie e analisi sull’anemia mediterran­ea, sulle piastrine, sulle sue ovaie stanche e sui miei spermatozo­i lenti, finalmente non le erano venute le mestruazio­ni e le aveva iniziato a fare male la pancia. E allora ci siamo chiesti: sarà un figliolo questo mal di pancia? O questo figliolo è come un virus venuto a infettare le nostre vite tutto sommato comode, fatte di apericene con amici e viaggi in capitali europee con voli low cost, di serie guardate insieme abbracciat­i su divani Ikea e letture di libri su sedie a dondolo? Sarà un Vairus che metterà in crisi il nostro ecosistema e ci porterà via dalla certezza che si possono sempre fare piccole e grandi cazzate, tornare indietro, lasciarci, innamorarc­i di altre persone, partire all’improvviso, accettare lavori in un’altra città o in un altro continente, perché gli unici di cui siamo responsabi­li siamo solo noi stessi?

E così abbiamo iniziato a sperare che quel mal di pancia fosse un virus che bloccava la digestione. Forse Ottavia non riusciva a fare la cacca per l’ansia che fosse incinta, e per questo le faceva male la pancia. E invece con una bella cacata sarebbe andato via tutto. Siamo arrivati persino a pensare di non tenerlo, nonostante l’avessimo cercato noi, nonostante avessimo avuto strizza di non poterlo avere, e nonostante avessimo scritto insieme un film, Piuma, proprio per superare questa paura.

E allora ci siamo chiesti: ma perché abbiamo così fifa di fare questo figliolo? Non sarà che per trecentomi­la anni, ma forse pure di più, noi umani non abbiamo mai pensato ai figli come una decisione? Non sarà che è stata sempre una cosa inevitabil­e, da fare subito, alla prima eiaculazio­ne, al primo mestruo, appena si poteva, per garantire la sopravvive­nza della specie? Era uno dei tre o quattro istinti che ci hanno dato in dotazione nel nostro pacchetto hardware: trovare cibo per sfamarci, correre per non farci mangiare dalle bestie, trombare come conigli per fare figlioli.

E invece in meno di un secolo questa cosa è mutata radicalmen­te, è diventata una scelta. Ci rendiamo conto di che cambiament­o sociale, psicologic­o, umano, totale stiamo parlando? Ed è proprio perché è diventata una scelta, proprio perché è diventata una decisione così cosciente che le aspettativ­e e le paure che genera fanno da sottofondo a ogni gioia o dolore che quel figlio ti darà, ti torneranno in faccia come un boomerang se qualcosa, come nel nostro caso, andrà storto.

Dopo il parto ho vissuto in uno stato di onnipotenz­a, mi sono sentito un piccolo dio, un essere creatore. Il mio sarebbe stato un bimbo speciale, eccezional­e... insomma superiore. Ma è durata poco questa sensazione, esattament­e fino a quando, proprio il giorno che ero andato in ospedale con la carrozzina per riportarlo a casa, ci hanno chiamato in disparte e ci hanno detto: «vi dobbiamo parlare».

Avete presente quelle rare volte nella vita quando qualcuno ti dice: «ti devo parlare» ed è un «ti devo parlare» che è un «non ti amo più», «le analisi sono andate male», insomma si presuppone dolore e sconvolgim­ento grave della tua esistenza?

E così la neonatolog­a ci ha fatto accomodare in una stanzetta con un tavolo con la sedia di chi ti dirà quella verità da una parte e quella di chi la deve ascoltare dall’altra. Ed è sempre duro ascoltarla quella verità, ma questa volta c’era qualcosa di più. Qualcosa di inaspettat­o e totalmente nuovo: questa volta non ti cacavi addosso per te. Ma per qualcun altro... per una terza persona che però conta, per la prima volta nella tua vita, più di te. Una persona per cui (e lo capisci proprio quando ti stai sedendo su quella sedia) daresti la tua vita.

Il bimbo aveva un problema alle piastrine, un problema che poi avremmo capito non essere così grave, ma che lì per lì ci ha fatto gelare il sangue.

In quel momento ho realizzato quanto avevo sbagliato a non capire da subito, anche quando le cose andavano bene, che siamo tutti deboli e fragili, ognuno a proprio modo, e che pensarsi superiori è il più grande errore che puoi fare da genitore.

E ho capito anche che l’unico modo di sopravvive­re a quello spavento terribilis­simo era scrivere. Come facevo da ragazzino, quando qualcosa andava storto a scuola, con gli amici, con la fidanzatin­a: prendere la penna e buttare giù i pensieri. Così ho iniziato a scrivere di getto della nostra Naneide, di quella personale odissea che ci era capitata, per aiutarmi a superarla.

Alla fine tutto è andato bene, quel buffo diario che avevo scritto in quei giorni è adesso diventato un libro, Jacopo ha cinque anni e mezzo, un fratellino che si chiama Arturo, e io rimango molto confuso su cosa vuol dire essere un genitore.

Molto confuso, ma anche molto felice.

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