STORIE GEMMA ARTERTON
Da 007 a una storia mystery
Quando a Jennifer Aniston hanno chiesto la ragione per cui avesse voluto interpretare il ruolo della parrucchiera disperata in Murder Mystery, ha risposto: «Per poter lavorare con Adam Sandler». Giro la stessa domanda a Gemma Arterton: e lei perché ha detto di sì a questo film? «Li amo entrambi, ma devo ammettere di averlo fatto soprattutto per Jennifer. Da ragazza ero ossessionata da Friends. Mi ero persino tagliata i capelli come Rachel».
Rachel, per quei pochissimi che non hanno mai visto Friends, era il nome del personaggio interpretato dalla Aniston. E il film in cui recitano entrambe, una variazione del giallo alla Agatha Christie, dopo il rilascio su Netflix il 14 giugno ha infranto nel corso del primo weekend ogni record della piattaforma: è stato visto da oltre 30 milioni di account nel mondo, il che significa parecchie più persone, perché è certo che davanti alla tv o al computer ci fosse in molti casi più di un singolo spettatore.
Il personaggio interpretato dalla Arterton è un’attrice genere «mi sono messa questo abitino di paillettes perché è il primo che ho trovato aprendo l’armadio». Ride: «Mi sono ispirata a Joan Collins, l’attrice di Dynasty. Lo dico perché sono certa che non le dispiaccia». Nel cast, nella parte di un dandy figlio di papà, c’è anche Luke Evans. Secondo motivo per cui ha accettato: «È un mio caro amico. Mi ha chiamato: “Dai, facciamo questo film, è un’occasione per passare un po’ di tempo insieme e divertirci”». La terza e ultima ragione che l’ha convinta si chiama Italia: il film è stato girato in estate sul Lago di Como e a Portofino. Nel nostro Paese, Arterton ha passato parecchio tempo quando era sposata con il manager Stefano Catelli, da cui ha divorziato quattro anni fa. E, racconta, ci torna ogni anno, «perché ho amici che hanno casa sulla costiera amalfitana. E amo l’Umbria».
Non corrispondevo ai canoni di bellezza femminile e mi sono spesso sentita giudicata. Invecchiando, non mi importa più
Da qualche tempo vanno di moda i Murder Mystery Party: si inscena un finto delitto e i partecipanti devono scoprire chi è l’assassino. Ha mai provato?
«No, ma vorrei farlo prima o poi. Ti devi vestire elegante e interpretare un personaggio, sono sicura che mi divertirei».
In effetti si tratta di recitare, che è quello che fa già. A proposito, è curioso il fatto che sia lei sia sua sorella minore Hannah vi siate diplomate alla Royal Academy of Dramatic Art e facciate le attrici nonostante la vostra famiglia non abbia nulla a che vedere con questo mondo.
«Strano, lo so. E mia sorella è anche una bravissima cantante. La passione per la recitazione per lei è arrivata dopo, da ragazza ha sempre suonato in gruppi musicali. La verità è che Hannah, a differenza di me, ha molti talenti: scrive e ha appena diretto un cortometraggio».
Ma anche lei presto canterà. Tra i suoi prossimi film c’è So Much Love, il biopic sulla cantante inglese Dusty Springfield.
«Nella vita ho già fatto alcuni musical. Mettiamola così: sono in grado di farlo, ma il canto non è in cima alla lista delle cose che mi riescono meglio».
Ma è vero che quando era ancora studente di teatro per guadagnare qualche soldo extra si esibiva nei club?
«Sì. Nei fine settimana conducevo le serate di karaoke in un pub di Londra».
Qual era il brano che le riusciva meglio?
«Avevo vari pezzi forti, ma la mia hit in assoluto era Total Eclipse of the Heart (di Bonnie Tyler, ndr)».
Sempre a proposito di talenti, ha anche fondato una sua casa di produzione, la Rebel Park Productions. Come mai questo nome? «I miei soci e io adoriamo David Bowie. All’inizio avremmo voluto chiamarci Rebel Rebel, dal titolo della sua canzone, ma ovviamente qualcuno ci aveva già pensato. Volevamo un nome che
avesse a che fare con l’idea di ribellione, qualcosa di un po’ punk perché il “mandato” che ci siamo dati fin dall’inizio era rompere gli schemi. Ci occupiamo di progetti centrati sulle donne: l’obiettivo non è solo puntare su personaggi femminili interessanti, siamo determinati anche ad avere più donne dietro la macchina da presa. E cerchiamo di aiutare le madri che lavorano, per esempio garantendo un servizio di babysitting sui set».
Tempo fa ha detto che una donna bella, intelligente e di successo viene guardata con sospetto.
«La cosiddetta minaccia tripla».
Nei confronti di chi?
«Questo non lo so, però se non sei felice del successo degli altri vuol dire che non sei contento di te stesso. Per fortuna, le cose stanno cambiando. Le donne hanno preso consapevolezza che una delle cause della rivalità tra loro è che non c’è abbastanza lavoro per tutte. Anziché invidiare le altre – che è quello che è successo fino a qualche tempo fa – molto meglio fare sistema, darsi una mano l’un l’altra. Sono convinta che questa sia la tendenza».
Ha mai considerato l’idea che se un giorno la situazione si ribaltasse le donne potrebbero comportarsi come hanno fatto gli uomini? «Intanto, creiamo più opportunità e vediamo che cosa succede. È difficile fare previsioni, visto che una cosa del genere non si è mai verificata prima. L’anno scorso ho girato un film, Summerland, e per la prima volta mi sono trovata a lavorare con una troupe composta al 50 per cento da donne: le posso garantire che questo ha cambiato l’atmosfera sul set in modo positivo. Mi sono detta che d’ora in avanti vorrei sempre lavorare così. Penso che se potessimo fare lo stesso in tutti gli ambienti di lavoro cambieremmo il mondo».
Parliamo di bellezza, un pezzo di quella minaccia?
«Anche qui le cose stanno cambiando. Non serve più una bella faccia per avere successo come attrice. Da giovane non corrispondevo a quelli che erano i canoni di bellezza femminile: non sono una modella, eppure mi sono sentita spesso giudicata per il mio aspetto. Ma, invecchiando, non me ne importa più nulla».
Invecchiando si fa per dire.
«Be’, non ho più vent’anni. Ma siccome voglio continuare a lavorare finché sarò un’anziana signora, non punto sull’apparenza quanto sulla sostanza del mio lavoro».
L’anno scorso, per la raccolta Feminists Don’t Wear Pink and Other Lies, ha scritto un racconto ironico sulla sua esperienza come Bond girl in Quantum of Solace. Perché?
«Ho immaginato che in questa fase post MeToo il mio personaggio, Strawberry Fields, avrebbe avuto qualche dubbio rispetto al suo ruolo. Voglio dire: nel film viene sedotta da James Bond e muore poco dopo, come succede a quasi tutte le amanti di 007. Nella mia nuova versione, invece di cadere subito fra le braccia di Bond, pensa che quel tipo è un po’ troppo vecchio per lei (il film uscì nel 2008, la Arterton aveva 22 anni e Daniel Craig 40, ndr) e quando lui la invita nella sua camera d’albergo, risponde: “No, grazie”. Anche perché è molto impegnata col suo lavoro e non ha tempo da perdere. È solo un raccontino divertente, ma l’ho scritto perché ero stufa di continuare a sentirmi fare domande su quel film. È passato tanto tempo, ero molto giovane e ingenua, all’epoca non ho riflettuto sul fatto che fosse un personaggio non in linea con un’idea femminista della donna».
Sta dicendo che oggi quella parte non la accetterebbe?
«Anche se è stata un’esperienza divertente, non farei più un film nel quale tutto ciò che accade al mio personaggio è andare a letto con uno e morire». ➺ Tempo di lettura: 7 minuti