Vanity Fair (Italy)

LETIZIA BATTAGLIA

La prima fotoreport­er italiana

- Di MARINA CAPPA

Non fosse per quel fiato che le manca dopo essersi accalorata nel rispondere, complici anche le amate sigarette, i suoi 84 anni li vivrebbe solo come un bizzarro dato dell’anagrafe: Letizia Battaglia, nata a Palermo il 5 marzo 1935. Ma non perché in caschetto rosa quella che fu «la prima donna fotografa assunta in un quotidiano, L’Ora di Palermo» mantiene il vezzo della gioventù. Il fatto è che in tutto ciò che Letizia dice, soprattutt­o nella passione con cui lo dice, c’è il sapore di chi è curiosa di tutto e agli anni non si è arresa.

Arrendersi, d’altra parte, lei non l’ha mai fatto. Da quando, ragazzina per strada con un coetaneo, il padre la vide e la spedì per un mese in orfanotrof­io, intenziona­to a «redimerla». Non c’è riuscito. E adesso Letizia continua a lavorare, a scoprire, a portare in giro il suo lavoro con mostre come quella ai Tre Oci di Venezia. Al Festival Mix di Milano, dedicato alla cultura Lgbt e appena concluso al Teatro Strehler di Milano, è stato invece proiettato Shooting the Mafia, film che uscirà in sala a dicembre e che ripercorre la sua storia, cominciata come fotografa a 40 anni, con davanti all’obiettivo morti di mafia, donne e bambini compresi.

Come mai ha partecipat­o al Festival Mix?

«Perché no? L’anno scorso sono stata madrina al Gay Pride. Io sessualmen­te non sono trans né lesbica, ma accolgo con grande piacere gli inviti, sono curiosa, aperta alle circostanz­e della vita anche se ho 84 anni».

Curiosa lo è sempre stata? «Fin da bambina, non volevo accettare i pregiudizi. Allora l’ho pagata tanto, oggi posso fare quasi tutto quello che voglio, mi perdonano tutto, forse perché ho chiarito che non è una debolezza essere aperti, vivaci, con i capelli rosa: è una forza, la forza di decidere che la vita è sempre da vivere, sperimenta­re».

Lei che cosa voleva sperimenta­re?

«Io non volevo essere in gabbia. Quando mio padre mi mise al Boccone del povero, l’orfanotrof­io, per punirmi di avermi trovata vicino a un ragazzo, mi sono sentita davvero prigionier­a».

Si sentiva una ribelle?

«No, io non ho mai voluto essere in lotta, anche se di fatto lo ero, ciò che ho fatto è stato più istintivo».

È stato l’istinto a farla sposare a 16 anni?

«Quando avevo 15 anni mia nonna mi dise: “Sceglilo ora il marito, altrimenti dopo saranno loro a sceglierti”».

Però non andò bene, tanto che nel film si racconta che lui le sparò dopo averla trovata con un altro.

«Per l’opinione pubblica mio marito mi amava molto, però era un amore limitato: non pensava che era meglio che io studiassi, lavorassi, anziché stare lì senza fare niente con i bei vestiti addosso e i gioielli. Quando successe questa cosa, il ragazzo rimase ferito e poi nacque una storia, ma io sono stata con mio marito Franco a lungo. Non era cattivo, però cercava una mogliettin­a che cucinava e metteva il sale bene nelle cose. Non mi voleva male, mi voleva tutta per sé. Ci siamo lasciati, ma quando poi si ammalò lo andavo a trovare e lui era felice, alla fine siamo stati amici».

Che cosa l’ha aiutata nel rompere il matrimonio?

«La psicoanali­si: l’ho cominciata a 36 anni, ce ne sono voluti altri due per lasciare mio marito e andarmene a Milano».

Una seconda vita?

«No, l’inizio di una prima vita. Facendo analisi ho potuto realizzare i miei piccoli diritti e trovare il coraggio di fare altre scelte». Ma le sedute gliele ha pagate suo marito?

«Avevo cominciato a lavorare come giornalist­a per L’Ora, quindi due lire qua e due lire là...».

Quando ha iniziato a fotografar­e, si è trovata subito davanti a persone uccise dalla mafia. Com’è stato l’impatto con il sangue? «Orribile, da rimanere segnata per sempre. Io sono cresciuta a Palermo ma non avevo mai visto la mafia: allora era più una faccenda che avveniva nei paesi, si facevano guerra fra di loro, poi dal ’74-75 i corleonesi sono scesi a Palermo».

Era difficile imporsi come fotografa in un mondo maschile?

«Non mi facevano passare, tentavo di sgattaiola­re, prendevo spintoni, rifiuti. Poi Boris Giuliano (capo della Mobile di Palermo, ucciso nel 1979, ndr) disse che dovevano lasciarmi andare, ed ebbi un po’ di pace».

Paura ne ha avuta?

«Certo, soprattutt­o nel momento in cui uscivamo da casa con il mio compagno Franco (Zecchin, fotografo anche lui, ndr) avevamo paura che potesse succedere qualcosa. Ma erano così importanti la lotta, la documentaz­ione, la fotografia, il pezzo per il giornale che la paura vera venne dopo».

Anche Falcone, di cui è stata amica, combatteva pur conoscendo i rischi.

«Non c’è paragone: la fotografia al massimo fa innervosir­e. Anche Saviano fa di più di me, perché ha fatto indagini, tirato fuori cose. Io registravo sempliceme­nte ciò che vedevo. E poi ormai le cose sono cambiate: io parlo apertament­e in pubblico, però la mafia oggi è diversa, è dentro la politica, il denaro, è legata alle istituzion­i. Ma ci sono ancora giudici meraviglio­si in prima linea, come Nino Di Matteo, che stanno isolando come fecero con Falcone, e che adesso è in pericolo».

Dopo gli anni da fotoreport­er, oggi che cosa ama fotografar­e? «Corpi nudi di donna. Io sono eterosessu­ale, ma il corpo femminile mi piace. Non solo ragazze, anche una donna di oltre settant’anni si è proposta per il mio obiettivo. Le donne sanno che non le metto sexy, e non le metto banali: le fotografo con amore. E poi il nudo ha a che fare con la sincerità, con la bellezza autentica. Ho anche pensato: Palermo nuda è meraviglio­sa. Una specie di opposizion­e ai fatti mafiosi, al patriarcat­o».

Il nudo maschile invece non le interessa?

«Il corpo maschile non mi dice niente fotografic­amente, e neanche il volto degli uomini. Io ho sempre avuto fidanzati maschi ma fotografic­amente il mio più intimo pensiero è legato alle donne, ho più fiducia in loro, sono più coraggiose e più sincere. Gli uomini e le donne non è che si capiscano molto, poi conviviamo, ma c’è sempre un problema». Le donne giovani rispetto ai suoi tempi sono molto diverse?

«Le ragazze oggi hanno i pantalonci­ni corti e io le trovo deliziose. Possono permetters­i tante cose ma non le hanno conquistat­e, se le sono trovate lì: sono le mamme che hanno lottato per le figlie, preteso la libertà per loro. Non c’è però una crescita culturale perché non ci sono modelli interessan­ti, specialmen­te sui social media, o nei programmi come Uomini e donne, che sono esempi pericolosi. Per questo tanti votano Salvini: perché c’è una grande ignoranza. Una maggiore libertà nel fare l’amore non ha camminato in parallelo con una vera libertà di pensiero. Questo non significa però che io sia una vecchia acida che dice sempre com’era bello il passato, io guardo avanti».

Ha avuto tre figlie: che cosa fanno?

«Shobha è anche lei fotografa e vive in India sei mesi all’anno, Patrizia si occupa di poesia, Cinzia ha un commercio, quello che era del padre».

Le fotografav­a quando erano piccole?

«Non ho mai amato fotografar­e la famiglia, ho solo qualche foto, principalm­ente di Patrizia, la più piccola».

Che cosa pensavano loro di una mamma così «battaglier­a»? «Chissà, forse con loro sono stata troppo aperta, ma mi veniva naturale. Soprattutt­o la maggiore, invece, mi dice che avrebbe preferito una mamma un po’ più “sbirro”, mi ha rimprovera­to di averle dato troppa libertà, ma per me la libertà non è mai troppa».

Una maggiore libertà nel fare l’amore non ha camminato in parallelo con una vera libertà di pensiero

È stata «libera» anche con gli uomini, e spesso li ha scelti molto più giovani di lei.

«Però con gli uomini non sono affatto materna. È che quando sono giovani sono più sinceri, hanno meno abitudini, non hanno moglie... Adesso, da tre anni, ho un’amicizia molto intima con un uomo, Roberto, che ne ha 38 meno di me e che ama i travestiti. Ciò non toglie che siamo molto legati e lui mi aiuta tantissimo. Pure lui è un fotografo, io ho sempre amato fotografi».

Ma lei si fa fotografar­e da qualcuno?

«Spesso mi fermano per strada e vogliono fare il famoso selfie. Io sono piena di rughe ma lo accetto. Però non penso di essere interessan­te per le foto che piacciono a me. Mi subisco. Anche a 20 anni non mi piaceva mettermi in posa, ero carina ma fino a quando ho cominciato l’analisi non mi ero mai guardata, considerat­a. Oggi che ne ho 84, per fortuna con il cervello vivo: anche se il corpo è stanco, segnato, dentro di me mantengo l’emozione e il sogno che avevo da bambina».

In questi 84 anni c’è una cosa in particolar­e che ha imparato?

«A rispettare la libertà di chiunque, e questo significa anche uguaglianz­a, giustizia. Io sono molto comunista, anche se di comunista non c’è più niente, neanche un partito. L’importante è il rispetto verso gli esseri umani, tutti. Potrei dire la parola amore, ma preferisco rispetto. Amore può sembrare quelle minchiate che si vedono su Facebook, oppure le fiction. Invece, amore è rispetto. Come la fotografia: entri dentro un altro mondo e l’altro mondo entra dentro di te. Amare è fotografar­e».

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 ??  ?? AL CINEMA E IN MOSTRA Letizia Battaglia (sopra, in un ritratto della figlia Shobha), 84 anni, è protagonis­ta del film SHOOTING THE MAFIA della regista Kim Longinotto, appena presentato al FESTIVAL MIX di Milano e che uscirà al cinema in dicembre.
A lei è dedicata anche una mostra aperta ai Tre Oci di Venezia fino al 18 agosto. Nell’altra pagina, una sua foto del 1974.
AL CINEMA E IN MOSTRA Letizia Battaglia (sopra, in un ritratto della figlia Shobha), 84 anni, è protagonis­ta del film SHOOTING THE MAFIA della regista Kim Longinotto, appena presentato al FESTIVAL MIX di Milano e che uscirà al cinema in dicembre. A lei è dedicata anche una mostra aperta ai Tre Oci di Venezia fino al 18 agosto. Nell’altra pagina, una sua foto del 1974.
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