Z come Zion
Mi ha ospitato in casa sua. È successo ad Antigua, in Guatemala, la chiamano Casa de familia. L’idea è abitare per una settimana con una famiglia del posto. Dormire con loro, mangiare con loro, vedere la realtà quotidiana attraverso gli occhi di chi la vive. A me l’idea piaceva: era economico e, dal momento del mio arrivo ad Antigua, cercavo
una scusa per restare in città.
Suo marito parlava tantissimo, accompagnandosi con ampi gesti delle mani, mentre lei parlava poco, a labbra strette, ma pian piano mi sono reso conto che era lei a prendere le decisioni in famiglia. La doccia stava in cortile. Una baracchetta senza tetto che a malapena ti nascondeva mentre ti lavavi. Lei, mentre si lavava, cantava. Con voce forte, bella. Canzoni che non conoscevo, ma capivo che si rivolgevano a Dio. Dopo averla sentita cantare per la prima volta, a cena le ho detto che cantava davvero bene. Non avevo alcuna intenzione.
Lei è rimasta in silenzio e il marito mi ha fissato come se fosse pronto ad accoltellarmi. Perciò per il resto della settimana non le ho più rivolto parole, solamente sguardi.
Ma durante l’ultima colazione – lo zaino era già pronto, accanto alla mia gamba – improvvisamente ha aperto bocca per chiedere se il fatto che io provenissi da Israele significava che venivo anche da Zion, Sion. Le ho risposto di sì, ero addirittura nato a Gerusalemme, e Zion è il nome biblico di Gerusalemme e di Israele. E… senti, ha continuato con gli occhi che brillavano, è vero quel che mi hanno raccontato in chiesa, che a Zion c’è un muro in cui si possono infilare i bigliettini con le richieste a Dio? Le ho risposto, sì, è vero, il Muro del pianto. Allora ha lanciato un’occhiata al marito e poi mi ha chiesto se poteva darmi un
bigliettino da mettere per lei nel Muro del pianto. Certo, ho sorriso. Lei ha strappato un foglio da un quadernetto, ha scritto alcune righe in spagnolo, l’ha ripiegato e me l’ha consegnato.
L’ho messo nel marsupio – all’epoca si usavano i marsupi – ma girava voce che i ladri li tagliassero per scipparli, perciò l’ho trasferito nello zaino. Una settimana più tardi sono tornato in Israele, ho svuotato lo zaino e ho infilato il biglietto in un cassetto nella mia stanza a casa dei genitori. Un mese più tardi mi sono trasferito a Tel Aviv per convivere con la mia ragazza, e il foglietto si è trasferito lì con me. Sei mesi dopo la ragazza e io ci siamo lasciati – un eufemismo per dire che mi ha mollato – e ho trovato rifugio da mia nonna, in periferia. Mi sono portato dietro il bigliettino anche da lei, ma quanto tempo si può resistere a casa di una nonna che non smette un attimo di rifocillarti? Perciò tre mesi più tardi sono tornato a Tel Aviv, questa volta in un appartamento fatiscente che condividevo con degli amici, e mi sono portato lì il biglietto. A quel punto, aveva ormai acquisito lo status di maledizione. Come i messaggi a catena.
La notte sognavo la donna in Guatemala, mi fissava con occhi torvi e taceva, avevo la sensazione che tutte le cose brutte che mi erano capitate da quando ero rientrato dal viaggio fossero successe perché non avevo consegnato il biglietto – nel frattempo avevo sbirciato e sapevo quanto disperata fosse la sua richiesta – al destinatario.
Così un bel giorno mi sono alzato e sono partito. Apposta, per Zion. Davanti al Muro del pianto era fermo un gruppo di turisti che rivolgevano a Dio in spagnolo – incredibile – una delle canzoni che lei cantava sotto la doccia; gli sono passato davanti, ho preso una kippah di cartone dal banchetto – al Muro del pianto ci si avvicina a capo coperto – mi sono accostato al muro, ho cercato fra le fessure stracolme di foglietti uno spazio per il suo e non l’ho trovato, mi sono alzato in punta di piedi, ho avvistato una fenditura alta e nascosta e mentre ci inserivo dentro il foglietto con la massima delicatezza, attento che non cadesse a terra, ho pensato, questo preciso momento un giorno diventerà la fine di una storia. O l’inizio.