Vanity Fair (Italy)

STORIE GINEVRA ELKANN

Una Agnelli a Locarno

- di MALCOM PAGANI foto ROBERTA KRASNIG

Con Magari, il suo primo film, che apre il Festival di Locarno, la regista scava con pudore, ironia e delicatezz­a nelle pieghe intime dei rapporti tra genitori e figli, e nell’adolescenz­a, «quando se sei timida come ero io ti struggi per due anni prima di dichiarart­i a un ragazzo». Ma quanto è dolce il ricordo di quel dolore

I miei si separarono quando avevo un anno: ho immaginato la felicità che c’era stata prima

Un periodo dove, fin dal titolo – Magari –, convivono nostalgia e promessa di futuro. Nella terra di mezzo in cui non si sa ancora dare nome a ciò che si è stati, ma non si è pronti a definire quel che si sarà. Sabaudia, 1990. Biciclette e motorini, orizzonti e solitudini, partite di calcio e film dei Vanzina in tv, corriere e tramonti, linee d’ombra da attraversa­re e lampi che illuminano il percorso. Il primo sorprenden­te lungometra­ggio di Ginevra Elkann – producono Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, distribuir­à Bim tra pochi mesi – si svolge durante un inverno che sembra un’estate. In un posto di mare che restituisc­e conchiglie e abissi, a seconda dell’angolazion­e dalla quale si osservi il disordine creativo di una famiglia in cui un padre inadeguato per la prima volta alle prese con la responsabi­lità e i suoi tre figli, che quasi non lo conoscono, dividono lo stesso tetto in un periodo circoscrit­to che somiglia a una vacanza e nasconde invece il passo duraturo dei confronti che rimangono, della verità, della vita. Il Festival di Locarno ha visto Magari, se ne è innamorato e ha deciso di dedicargli l’onore dell’apertura: «Sarà una sorta di ritorno, ma anche un inedito», dice la regista. «Il primo film che avevo prodotto, ambientato in Iran e girato da Babak Jalali, fu invitato proprio lì, ma io non lo seguii perché stavo per partorire. Locarno è un Festival meraviglio­so dove il pubblico assiste alle proiezioni in una piazza bellissima, e in cui ogni cosa e ogni dettaglio parlano del profondo amore per il cinema».

È un amore corrispost­o?

«Totalmente. Sono cresciuta negli anni ’80 anche io, un tempo molto più libero, fatto di poco e di tutto, in cui al riparo dal bombardame­nto contempora­neo di impulsi e rumori, senza telefonini, potevi innamorart­i dei ragazzi a bordo di un Ciao e inventarti qualsiasi cosa lavorando di fantasia. Ero una ragazzina silenziosa, di una timidezza quasi parossisti­ca, e quando sei così timida l’adolescenz­a può essere un periodo molto complicato».

Descrizion­e della sua timidezza?

«Se mi piaceva un ragazzo mi struggevo per due anni prima di rivelarmi. Non era poi così male struggersi per amore, c’era un compiacime­nto in quella sofferenza».

Il cinema che ruolo ha avuto nella sua formazione?

«Un ruolo fondamenta­le. In disparte, con pudore, osservi gli altri e vedi tanti film. L’ho fatto fin da quando ero piccola».

Si ricorda il primo?

«Come non potrei? The Elephant Man di David Lynch. Me lo fece vedere mia madre in tv».

Frequentav­a la sala?

«Era un privilegio riservato a mio padre e mio nonno».

Suo nonno, Gianni Agnelli.

«Mi portava al cinema, a vedere i film della sua epoca, da

Beau Geste a The Lady from Shanghai. Era rapito dai modi, affascinat­o dai movimenti impercetti­bili delle attrici: “Hai visto cosa gli ha fatto con la mano Rita Hayworth?”. Poi forse per il dolore alla gamba, forse per la noia, mollava spesso la proiezione a metà».

Era contento che lei facesse cinema?

«Contento non direi. Quando andai a fare l’assistente per Bertolucci su L’assedio, dubitò: “Ma perché la mandate a Roma a contatto con quell’orrendo mondo del cinema? Ce la rovinerann­o”».

Aveva ragione?

«Aveva torto. Io però ero felicissim­a. Seppi che Bertolucci cercava un assistente quando, dopo aver studiato regia a Londra e aver girato dei corti, stavo vagheggian­do di partire per l’America per seguire la mia passione. Mi venne dato un numero di telefono e l’indicazion­e di chiamarlo a una data ora: per l’ansia mi scrissi il discorso su un foglietto per seguirlo passo dopo passo».

Telefonata con Bertolucci.

«Partì una segreteria e recitai la mia parte. Poi mi richiamò e mi diede appuntamen­to in via della Lungara, a Trastevere, a casa sua, in un giorno di caldo e zanzare. Era bello e severissim­o, Bernardo. Incuteva timore. Mi diede due magnifici film da vedere, tra cui Happy Together di Wong Kar-Wai, e poche settimane dopo mi ritrovai sul set nelle mani di Serena Canevari, il suo primo aiuto. Non sapevo urlare e con una piccola perfidia, “silenzio!”, prima della consueta liturgia ciak-motore-azione, lo facevano gridare sempre a me».

Come ha deciso di diventare regista?

«Era l’idea originaria, poi dopo aver fatto la video assistant per Anthony Minghella nel Talento di Mr. Ripley e aver accumulato un altro po’ di esperienze e gavetta, morì mio nonno. In quel periodo nella mia vita accaddero molte altre cose non sempre felici che, forse per paura di affrontare il mio sogno, mi fecero recedere dal proposito. Mi gettai nella produzione raccontand­o storie di Paesi lontani, di gente ai margini, vicende poco esplorate. Un’avventura bella, formativa ed emozionant­e».

Magari racconta anche dello stretto rapporto fra tre fratelli. Con John e Lapo, siete in tre anche voi. Quanto c’è di autobiogra­fico nel suo film?

«Non più di quanto non sia lecito e non meno di quanto sarebbe inutile negare. Io, John e Lapo siamo molto diversi, ma anche molto legati. Ci vediamo, ci incontriam­o, viaggiamo insieme. Proprio come i fratelli del film, tra noi tre c’è un rapporto fortissimo».

Dove si nasconde allora l’autobiogra­fia in Magari?

«Nella rappresent­azione di un lessico familiare e di un disordine che sono stati miei. Ho disegnato un racconto sull’idea della famiglia, su quello che immagini sia e che ti porti dietro dall’infanzia. Alma, la bambina del film, sogna che i genitori tornino l’uno accanto all’altro perché vicini non li ha mai visti. È un ricordo molto personale: i miei si separarono quando avevo un anno e io non li ho mai

visti insieme, né nella stessa stanza, né nell’ambito di un periodo in comune, fino all’età di 14 anni. Quindi ho immaginato la vita che c’era stata prima di me, i periodi felici tra loro, l’idillio».

Ha sofferto?

«Ho avuto un’infanzia itinerante tra l’Inghilterr­a, dove sono nata, e il Brasile, dove mi trasferii tra i 3 e gli 8 anni perché mia madre si era innamorata di un signore che viveva lì e che è tuttora suo marito. Del resto e sul resto, non chiedevo niente. Ero una bambina che sognava e il film racconta anche questo sogno: un sogno di riconcilia­zione a cui la cruda concretezz­a opporrebbe il realismo dell’impossibil­ità, ma che nella visione infantile si trasforma rendendo l’impossibil­e possibile. Ovviamente nel film non c’è solo la mia famiglia: io e Chiara Barzini, la sceneggiat­rice, abbiamo pescato nelle storie di tantissime persone. Anche perché in

Magari pulsano le dinamiche che esistono in tutte le famiglie del mondo».

Magari emoziona e porta in superficie la memoria di quel che siamo stati da bambini e da adolescent­i.

«Sono contenta che me lo dica perché era esattament­e quel che io e Chiara, che è una scrittrice irriverent­e e baciata dal senso dell’umorismo, desiderava­mo accadesse. Che si entrasse in sala e poi, nel momento dell’accensione delle luci, si uscisse all’aria aperta con qualcosa che ti resta dentro e che ti smuove intimament­e».

È stato difficile lavorare con bambini e adolescent­i?

«Ho lasciato loro molta libertà incastonat­a in confini molto precisi: ciò che mi interessa in un attore è l’intenzione. Il sentimento che porta in dote. Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, i due protagonis­ti, sono stati molto generosi verso la storia e verso i bambini».

Magari è un titolo aperto. Una parola che apre alla possibilit­à e alla speranza, ma non offre certezze.

«Magari è una parola che mi piace molto. È doppia. È nostalgica e malinconic­a, ma ha dentro una porzione di felicità».

E la malinconia le piace?

«È un sentimento che vive dentro di me, e se ci vive significa che non mi dispiace».

Cosa le dispiace allora?

«Il conformism­o generalizz­ato: siamo entrati testa e piedi in un format molto preciso alle cui regole dobbiamo sottostare. Sono regole sciocche, legate alla libertà di parola, alla censura e all’autocensur­a, alle cose che si possono o non si possono dire. Mi pare, ma forse sbaglio, che il cinema conservi tempi e modi per declinare la realtà alla propria maniera, una maniera più libera».

È stato difficile far dimenticar­e di essere una Agnelli, ammesso e non concesso che uno debba farlo dimenticar­e?

«La chiave è proprio questa: da piccola pensavo che per esistere fosse necessario farlo dimenticar­e, poi ho capito che la mia famiglia è parte della mia vita, che vengo da lì e che non c’era ragione di allontanar­si da quel sentiero. Non sento più il peso del giudizio altrui e so che non c’è chiave più giusta per la serenità di accettare quel che sei. Adesso lo so, ieri lo sapevo meno».

Quando ha capito queste cose?

«Dopo essermi sposata e aver avuto dei figli. Cosa tramandi loro? Chi sei e da dove vieni. Senza rimozioni».

Tra poco compirà 40 anni. Sono come se li immaginava?

«Meglio. Ho molti amici, una vita piena, consapevol­ezze maggiori di ieri. Non ho più la sensazione di non aver combinato niente».

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 ??  ?? L’ALLIEVA Ginevra Elkann,
39 anni, già assistente di Bernardo Bertolucci e Anthony Minghella, poi produttric­e, ha studiato a lungo cinema a Londra.
Il suo film, Magari, apre il Festival di Locarno (dal 7 al 17 agosto).
L’ALLIEVA Ginevra Elkann, 39 anni, già assistente di Bernardo Bertolucci e Anthony Minghella, poi produttric­e, ha studiato a lungo cinema a Londra. Il suo film, Magari, apre il Festival di Locarno (dal 7 al 17 agosto).
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A sinistra, Gianni e Marella Agnelli con i figli Margherita (con in braccio il figlio Pietro) ed Edoardo, scomparso nel 2000. I bambini, da sinistra: John e Lapo Elkann, Andrea e Anna Agnelli (figli di Umberto), Ginevra Elkann. Sopra, una scena di Magari.
Prodotto da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per
Wildside, il film inaugurerà il Festival di Locarno e sarà in sala con Bim a marzo 2020.
REALTÀ E FINZIONE A sinistra, Gianni e Marella Agnelli con i figli Margherita (con in braccio il figlio Pietro) ed Edoardo, scomparso nel 2000. I bambini, da sinistra: John e Lapo Elkann, Andrea e Anna Agnelli (figli di Umberto), Ginevra Elkann. Sopra, una scena di Magari. Prodotto da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, il film inaugurerà il Festival di Locarno e sarà in sala con Bim a marzo 2020.

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